Usucapione: un fantasma aleggia sui diritti dei proprietari
Nato come istituto rivoluzionario, ai fini del frazionamento dei
grandi latifondi incolti, ma con una forte connotazione di concretezza “borghese”
(la proprietà è tale se la si sfrutta e comunque va reso certo di chi sia),
l’usucapione è ancor oggi una piccola scheggia impazzita, incuneata nel nostro
codice.
Lo stesso significato del termine (che si potrebbe tradurre con
“prendo, perché uso”) odora di sacrilegio. Ad essere vilipeso è infatti lo
stesso principio della validità dei titoli legali, scritti e trascritti con
tutte le regole. E, come vedremo, in certi casi viene legittimata perfino la
mancanza di buona fede.
Non stupisce quindi che l’usucapione aleggi come un fantasma nelle
preoccupazioni di tanti proprietari che , anche solo per civile tolleranza
permettono ad altri l’uso di un bene. Ed ecco il motivo per cui sono comuni un
infinità di quesiti angosciati, del tipo: “se permetto di posteggiare l’auto al
vicino sul mio terreno, può usucapirlo?” oppure “se uno degli eredi continua ad
abitare l’immobile comune, può usucapirlo?”
Il codice civile prevede due tipi di usucapione: quella ventennale
e quella abbreviata, di soli dieci anni di durata. Quest’ultima è abbastanza
rara: prevede infatti che l’immobile o il diritto immobiliare (per esempio, una
servitù), siano stati trasferiti da una persona non proprietaria ma con un titolo “valido e regolarmente
trascritto”. Per esempio un rogito d’acquisto, un atto di donazione, una
divisione tra eredi. Quindi l’atto resta invalido, ma chi possiede per dieci
anni l’immobile, ne diviene ugualmente proprietario. A un patto: deve essere in
buona fede, e quindi non aver saputo l’atto è nullo, o non averlo potuto sapere
con la normale diligenza.
L’usucapione ventennale è invece molto più diffusa: è di essa che
ci occuperemo. A differenza di quella decennale non prevede né l’esistenza di
titoli e talvolta neanche la buona fede. Va aggiunto che i due periodi (dieci e
vent’anni) scendono rispettivamente a cinque o a quindici anni in caso di
terreni agricoli, con annessi fabbricati, nei comuni classificati come montani
e per i terreni agricoli in genere con reddito dominicale fino a 350 mila lire
(677,69 euro).
Condizioni per usucapire.
Più che il codice civile, è stata però la giurisprudenza a definire
a quali patti si usucapisce. In due parole, il possessore deve comportarsi
esattamente come se fosse il proprietario del bene. Deve non solo essere
padrone nei fatti, ma anche nell’atteggiamento e nella volontà. Qui sta il
punto: quasi nessun singolo atto (neppure il pagamento delle tasse
sull’immobile) giustifica di per sé la pretesa di essere divenuto proprietario
dopo vent’anni, ma, come vedremo, occorre un “collage”di comportamenti, che
volgano ad escludere l’intervento di qualsiasi altra persona, e particolarmente
del legittimo proprietario, dal possesso del bene. Se ciò accade, l’usucapione
matura automaticamente: si diviene proprietari senza bisogno di atti pubblici.
L’ acquisto non deve essere avvenuto “in modo violento o
clandestino”. Il concetto di clandestinità va chiarito: non è tanto il
proprietario che deve sapere che il suo bene è posseduto da altri, quanto la
collettività. Insomma deve essere notorio a persone non direttamente coinvolte,
che in genere abitano nel comune dove è situato l’immobile, che l’immobile è
posseduto da chi usucapisce . Meglio ancora, esse debbono credere che ne sia il
reale proprietario. Attenzione però: se violenza o clandestinità ci sono state,
ma sono cessate, dalla loro fine si inizia comunque a calcolare il periodo
ventennale. Questo tipo di usucapione non prevede la buona fede di chi diviene
proprietario, che può anzi rendersi perfettamente conto di occupare un terreno
o una casa senza titolo (Cassazione 5964/1996, 2565/1997, 8823/1998).
Una cosa è il “possesso” di un bene, un’altra è la detenzione. Chi
ha avuto un bene in locazione o in comodato ad uso gratuito è un semplice
detentore, e quindi non può usucapirlo. In particolare, se l'intestatario del
bene prova che permettere l'uso dell'immobile è stata un atto di semplice
tolleranza per ragioni di amicizia o parentela, l'usucapione non potrà mai verificarsi.
Insomma, chi usucapisce deve comportarsi davvero padrone, non da persona che ha
avuto il permesso di usare un immobile.
Questo è in effetti il vero punto dolente, per chi ha un titolo di
proprietà . Dimostrare che è in atto un comodato gratuito, ma non scritto, è
molto più complesso: in genere le uniche prove, pro o contro, sono semplici
testimonianze. A decidere, alla fin fine, è il giudice. Se la sentenza è
adeguatamente motivata, il giudizio di merito (cioè sul fatto concreto) non è
impugnabile in Cassazione.
Per la verità anche colui che è formalmente
detentore può provare di non esserlo nei fatti, dimostrando invece di essere
divenuto possessore. E’ la cosiddetta “intervisione del possesso”, che prevede
un’opposizione esplicita, nei fatti o in giudizio, ai diritti del proprietario
(mentre negli altri casi l’acquisto per usucapione è automatico).
L’interversione, in presenza di un contratto di locazione, resta comunque un
caso piuttosto raro, si potrebbe definire “di scuola”.
L’usucapione delle cose comuni.
L’usucapione di un immobile comune o comunque di una sua parte (una
soffitta, un pianerottolo, un box), è senz’altro più difficile da dimostrare.
Questo perché è normale che ciascuno dei comproprietari faccia uso
dell’immobile in comunione, senza che gli altri possano o vogliano opporsi.
Tuttavia in questi casi non solo l’usucapione è legittima, ma è anche piuttosto
comune. Non a caso buona parte delle controversie riguardano i coeredi di un
patrimonio che, decenni dopo la morte del genitore o del parente, non hanno
ancora provveduto a dividersi i beni. I motivi sono tra i più vari: talvolta
non lo ritenevano necessario, talaltra non riuscivano a mettersi d’accordo, o
infine volevano evitare di pagare l’imposta sulla divisione ereditaria. Altrettanto
frequenti i casi di usucapione in condominio: pensiamo a chi occupa con mobili
un pianerottolo, chi si insedia nella soffitta comune, chi sfrutta
l’appartamento abbandonato del portiere. Se ne occupa anche l’ultimo comma
dell’articolo 1102 del codice civile, che afferma che “Il partecipante alla
comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno agli
altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo
possesso”.
La Cassazione ha chiarito, che non è sufficiente che chi vuole
usucapire dimostri che i coeredi o i condomini non abbiano mai fatto uso per
vent’anni dell’immobile di cui si è “appropriato”. Ne può bastare che uno dei
coeredi abbia amministrato il patrimonio, pagando le imposte e le utenze, e
provvedendo alla manutenzione del fabbricato: infatti si presumere che si sia
limitato ad anticipare le spese degli altri, in attesa di farsele rimborsare.
Occorre invece che il comproprietario abbia dimostrato, in modo palese, di
voler essere il vero padrone, in modo tale da escludere qualsiasi pretesa da
parte di altri di utilizzare a loro volta il bene.
Come ribellarsi
Vi è un solo modo, per il legittimo proprietario che non usa il
bene, per non far scadere il ventennio di usucapione: promuovere un’azione in
giudizio per il reintegrazione nel possesso. Questo è forse il concetto meno
chiaro a chiunque si trova a subire “l’esproprio” dei propri diritti e che,
troppo spesso, rimane con un pugno di mosche quando aveva creduto di essersi
difeso più che a sufficienza. Non va dimenticato, infatti, che “il possesso può
esercitarsi anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare
del diritto” e quindi in spregio a qualsiasi lamentela , come ha efficacemente
spiegato la Cassazione (sentenza n. 9025/1998). Inutile quindi protestare per
raccomandata. : Inefficace qualsiasi altro atto, come la vendita dell’immobile
a terzi (Cassazione 1530/2000), l’accensione di un’ipoteca sull’appartamento
(Cassazione 14733/2000), la richiesta di denaro a titolo di canone di locazione
(Cassazione, 1073/98) e perfino l’accertamento proposto in giudizio sulla
nullità o l’invalidità di un atto di compravendita (Cassazione 7028/1995), per
effetto del quale il presunto proprietario non lo è effettivamente.
L’onere della prova
Chi agisce in giudizio per vedersi riconoscere il fatto di aver
usucapito, deve portare in genere le prove di quanto afferma. Tuttavia, secondo
la Cassazione (sentenze 3063/2000 e 15755/2001), se è sufficientemente
dimostrato da fatti concreti il comportamento da “padrone” di chi usucapisce,
sarà invece chi ha un titolo di proprietà, cioè il convenuto in giudizio, a
dover dimostrare che l’usucapione non è avvenuta, perché per esempio vi è stata
un’interruzione nel possesso, oppure perché era in atto un semplice comodato
gratuito oppure si è trattato di un atto di semplice tolleranza.
Effetti dell’usucapione
La giurisprudenza afferma che l’usucapione è un “acquisto a titolo
originario”. In parole più semplici è un diritto tanto “forte” da prevalere su
qualsiasi altro, per esempio su un atto di compravendita. Chi usucapisce,
diviene automaticamente proprietario allo scadere del ventesimo anno, senza
bisogno di atti pubblici. Con un effetto retroattivo: è come se ne fosse stato
proprietario da sempre, o meglio dal momento in cui ha iniziato a comportarsi
da padrone. L’acquisto si trasmette anche al coniuge in comunione di beni.
Tuttavia, per vedere trascritto presso i registri immobiliari la
sua proprietà, deve ricorrere al tribunale del luogo dove è l'immobile è
situato, pagare le relative spese di giudizio, l'imposta di registro e quelle
ipotecarie e catastali. Solo così potrà rivendere la casa o far valere i propri
diritti rispetto a terze persone, estranee al rapporto tra nuovo e vecchio
proprietario (Cassazione 9884/1996). .
Sono proprio questi estranei a dover talvolta patire degli effetti
più indesiderabili dell’usucapione. Pensiamo, ad esempio, a una banca che, a
garanzia di un credito, abbia iscritto un’ipoteca su un immobile e che rischia
di trovarsi a bocca asciutta. La Cassazione ha infatti chiarito (sentenza
8792/2000) che l’usucapione estingue le ipoteche iscritte o rinnovate a nome
del precedente proprietario, dal momento che ha efficacia retroattiva.
Dal punto di vista pratico, l’usucapione finisce per avere effetti
“di sanatoria” rispetto a innumerevoli atti illegittimi. Per esempio, una
donazione nulla (Cassazione 11203/1995), un’accettazione di donazione senza la
necessaria autorizzazione da parte di un Ente benefico (Cassazione 815 e 9632
del 1999), l’imposizione irregolare di una servitù da parte di un ente pubblico
(che, in questo caso, non dovrà neppure versare l’indennità prescritta, secondo
la sentenza n. 3153/1998 della Cassazione).
Casi particolari.
Le sentenze in Cassazione sono ricche anche di giudizi su casi
specifici. Per esempio, la Suprema corte ha decretato che non basta, per
usucapire, avere ottenuto una regolare concessione edilizia (sentenza
3428/1998). Tuttavia è senz’altro una prova decisiva dell’animus possidendi
aver edificato sul terreno altrui (sentenza 1530/2000) . Per usucapire non è
necessario realizzare delle opere visibili: (per esempio dei paletti di
recinzione o delle strisce di delimitazione dei posti macchina, nel caso di un
parcheggio).Niente vieta, inoltre, di usucapire una proprietà che ci è stata
espropriata, se la pubblica amministrazione rimane inerte e non attua il
previsto intervento urbanistico (Cassazione, 5293/2000).
E’ infine possibile , per il coniuge separato, usucapire la casa
avuta in assegnazione dal giudice (sentenza 2170/1998).
Tipo di beni |
caratteristiche del possesso |
anni per l’usucapione |
Beni e diritti immobiliari |
acquistati in buona fede con titolo idoneo a trasferire la
proprietà |
10 anni |
posseduti come se si fosse il proprietario |
20 anni |
|
Fondi e fabbricati rustici* |
acquistati in buona fede con titolo idoneo a trasferire la
proprietà |
5 anni |
posseduti come se si fosse il proprietario |
15 anni |
* Le condizioni per questo tipo di usucapione sono stabilite dalla
legge 346/1976 che ha inserito l’articolo 1159-bis nel codice civile.
Fonte: Ufficio Studi Confappi (Confederazione piccola proprietà
immobiliare)
Quanto pretende il Fisco
I provvedimenti che accertano l’ usucapione della proprietà di beni immobili o di diritti reali
di godimento su di essi sono sottoposti alle imposte di registro, ipotecarie e
catastali nella misura ordinaria, esattamente come si trattasse di normali
compravendite. Pertanto anche in caso di usucapione è possibile versare
l’aliquota ridotta del 3% e le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa,
se si è nelle condizioni di un acquirente di prima casa o di immobile con
vincolo storico-artistico ai sensi delle leggi statali. Negli altri casi, si
versa complessivamente il 10% del valore dell’immobile.
Per evitare che l’usucapione sia sfruttata come un espediente per
aggirare le norme sulle donazioni, l’articolo 26 del Testo Unico delle imposte
di registro prevede la cosiddetta “presunzione di liberalità”. Qualora chi
usucapisce sia il coniuge o un parente in linea retta, se l'ammontare complessivo dell'imposta di registro
e di ogni altra imposta dovuta per il trasferimento è inferiore a quello delle
imposte applicabili in caso di trasferimento a titolo gratuito, il
trasferimento è presunto una donazione (salvo che si provi in modo
inoppugnabile il contrario).
Il valore dell’immobile di cui tener conto, ai fini fiscali, è
quello al momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento
della usucapione stessa (Cassazione tributaria, sentenza 10372/2000).