Riscaldamento.
Una modifica normativa alla legge 10
del 1991 riapre i dubbi sulla trasformazione della caldaia in un insieme di impianti autonomi
Avanza il
calorifero a misura di utilizzo
La disciplina specifica favorisce l’opzione
«contabilizzata» con misuratori in ogni appartamento
La conversione
dall’impianto centralizzato a quello autonomo sarebbe, per le norme
condominiali contenute nel codice civile, una scelta che si può assumere solo
all’unanimità dei consensi di tutti i proprietari dell’edificio
(e non solo di quelli intervenuti in assemblea). Tuttavia, dal varo della legge
n. 10 del 1991, le cose sono cambiate: a certe condizioni si è infatti previsto che entrino in gioco maggioranze ridotte. La norma, contenuta nel comma 2 dell’articolo 26 della legge
non è il massimo di chiarezza: tuttavia la Cassazione si è data più volte da
fare per interpretarla, dando indicazioni abbastanza coerenti da sentenza a
sentenza. Nel comma 5 dello stesso articolo, poi, ci si è occupati della
conversione dell’impianto centralizzato da tradizionale a contabilizzato,
provvisto cioè di termoregolazione appartamento per
appartamento e di contatori individuali dei consumi.
Peccato che il
lavoro fatto dalla Suprema Corte nel passato sia oggi quasi tutto “da buttare”.
E’ infatti intervenuto il decreto legislativo 29 dicembre 2006, n. 311 che ha completamente
sostituito il comma 2 (lasciando invece invariato il 5).
La norma precedente affermava
in sostanza che basta la maggioranza delle quote
millesimali per decidere gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al
contenimento del consumo energetico ed all'utilizzazione delle fonti di
energia. Tra gli interventi volti al risparmio energetico
andavano compresi quelli elencati nell’articolo 8 della legge 10/1991
stessa. E nell’articolo 8 era ed è prevista la “trasformazione di impianti centralizzati di
riscaldamento in impianti unifamiliari a gas per il riscaldamento e la
produzione di acqua calda sanitaria dotati di sistema automatico di regolazione
della temperatura, inseriti in edifici composti da più unità immobiliari, con
determinazione dei consumi per le singole unità immobiliari”. Quindi non
c’è dubbio che il passaggio al termoautonomo dal centralizzato era considerato un intervento di risparmio energetico, come
del resto ha sempre ribadito la Cassazione.
Il comma attualmente in vigore è diverso. Innanzitutto è scomparso
(probabilmente non a caso) il riferimento all’articolo 8.
Poi è richiesto che tali interventi siano “individuati attraverso un attestato
di certificazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico
abilitato”. Infine non si parla non solo di “maggioranza delle quote
millesimali” ma di “maggioranza semplice delle quote millesimali”. Vediamo, uno
per uno, questi cambiamenti.
Non c’è dubbio che
nel 1991 il termoautonomo era valutato da molti
tecnici come un miglioramento certo rispetto al centralizzato. Ora questa opinione è mutata. Pare infatti
largamente preferita dalle norme tecniche la cosiddetta “contabilizzazione del
calore”, in cui l’impianto rimane centralizzato ma è possibile ai singoli
condomini regolare la temperatura o addirittura spegnere i caloriferi nel
proprio appartamento. Non ci dilunghiamo sui motivi: maggiore efficienza di una
caldaia rispetto a tante, minore inquinamento
dell’aria, incremento della sicurezza e della manutenzione, con la gestione
affidata a una ditta esterna (il cosiddetto terzo responsabile). La Regione
Piemonte, con la legge n. 13/2007, si è spinta fino a rendere obbligatoria la
contabilizzazione nei nuovi edifici condominiali (mentre per la norma nazionale
l’obbligo esiste solo qualora il riscaldamento previsto sia centralizzato). Ma
non solo: ha imposto il centralizzato- contabilizzato anche nel caso di
rifacimento di impianti termoautonomi,
salvo eccezioni da prevedere con regolamento (edifici ubicati nei comuni
definiti turistici ed agli edifici esistenti a prevalente dotazione di impianti
di riscaldamento autonomo). Anche in altre regioni
(per esempio la Lombardia) il passaggio al contabilizzato prevede l’erogazione
di contributi, mentre non ce n’è traccia per la conversione al termoautonomo
tradizionale.
Secondo punto. La
Cassazione, con diverse sentenze, aveva affermato il principio secondo cui era
possibile godere delle maggioranze semplificate anche
senza la necessità di progetto di opere corredato dalla relazione tecnica di
conformità che attesti il risparmio che si andrà a conseguire. Infatti, il
progetto attiene “alla fase successiva di esecuzione
della volontà assembleare”. In poche parole, il risparmio energetico poteva essere
dimostrato anche dopo che le opere erano state terminate (sentenze n.
16980/2005, n. 5117/1999, n. 1165/1999 e, soprattutto,
n. 5843/1997).
Ora non è più così:
la nuova norma prevede che “si individui” l’intervento
con un attestato di certificazione energetica o una diagnosi energetica. Perciò diverrebbe necessaria un’analisi prima di poter
validamente votare in assemblea. La diagnosi energetica è lo strumento più
logico: serve a capire quali sono le “malattie” di un immobile e suggerire le
cure. La certificazione, invece, si limita a fotografare il fabbisogno attuale di energia di un edificio e sarebbe uno strumento inutile se
non prevedesse, in un allegato obbligatorio, i consigli del tecnico per
conseguire migliori risparmi energetici.
Ma
attenzione: sia che si ricorra all’uno o all’altro dei due strumenti, una volta
eseguito l’intervento occorrerà ottenere una nuova certificazione energetica
dell’edificio: lo impone, in caso di trasformazione dell’impianto termico, il
Dlgs n. 192/2005. Ricordiamo poi che la certificazione
energetica non riguarda solo l’impianto di riscaldamento, ma anche la
trasmittanza delle strutture, muri, pavimenti e infissi (cioè
la loro permeabilità al freddo e al caldo).
Siamo ora al terzo
punto. La vecchia norma, parlando di “maggioranza delle quote millesimali” era
confusissima. Di maggioranze in condominio non ne esiste
una sola, ma tante, a seconda delle decisioni da prendere. C’è poi un secondo
problema. In condominio le maggioranze sono doppie. Vigono contemporaneamente sia
quella delle quote sia quella delle persone che partecipano all’assemblea (le
cosiddette “teste”). Occorrono anche le teste, quindi? L’interpretazione della
giurisprudenza è stata ondivaga, a proposito, anche se pare dominante in questo
caso specifico quella che afferma che le quote bastino. La nuova norma
aggiungendo l’espressione “maggioranza semplice” non aiuta molto. A occhio, la maggioranza semplice è quella con cui si
assumono le delibere ordinarie (quella dei partecipanti all’assemblea e di
almeno un terzo dei millesimi), mentre i 500 millesimi sono richiesti dalle
maggioranze “regolamentari”.
La procedura. Struttura comune e spese divise
Si può cambiare
senza «diagnosi»
Sin
dal 1991 la legge ci fa intravedere però una possibile terza soluzione
alternativa, rispetto a quella del distacco e della trasformazione da
centralizzato ad autonomo: si tratta della cosiddetta"contabilizzazione
del calore", cioè la sopravvivenza della caldaia
centralizzata e l'installazione di contatori di calore che permettano il
calcolo del consumo appartamento per appartamento
Se
ne occupa il comma 5 dell’articolo 26 della legge 9
gennaio 1991 n. 10. I questo caso, senza ulteriori
specificazioni, si dice che l'assemblea decide a maggioranza, in deroga agli
articoli 1120 e 1136 del codice civile. Da ciò si deduce:
che, in caso di
impianto di contabilizzazione del calore, non è necessaria né una diagnosi né
una certificazione energetica che dimostri il possibile risparmio energetico;
che la
contabilizzazione non è un'innovazione, o non è trattata come tale.
Quanto
al tipo di maggioranza necessaria, a nostro avviso si deve trattare di quella ordinaria, in quanto non diversamente specificato. E cioè quella di 1/2 + 1 intervenuti e almeno 500 millesimi
(prima convocazione) e della maggioranza degli intervenuti che rappresenti
almeno 1/3 dei condomini e 1/3 millesimi (seconda convocazione). Il Tribunale
di Roma (sentenza n. 39236/2000) ha optato invece per
la sola maggioranza dei presenti in assemblea.
Tuttavia,
se la decisione fosse presa con maggioranza insufficiente, essa è solo
impugnabile in giudizio entro 30 giorni da quanto si è avuto notizia della
delibera. Passata questo termine, diviene valida.
Lo stesso comma ci
dice che con gli stessi voti è possibile approvare “il conseguente riparto
degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato”.
Qui sorge un dubbio:
se, come quasi sempre capita, le tabelle allegate al
regolamento condominiale contrattuale, approvato all’unanimità, stabiliscono un
criterio diverso di suddivisione attraverso i cosiddetti millesimi-calore,
prevale il regolamento oppure la decisione sulla ripartizione presa in
assemblea? Non ci pare che la Cassazione abbia affrontato questo nodo, che
rischia di rendere del tutto inutili le facilitazioni
concesse dalla legge.
La risposta a questa
domanda dipende strettamente da quella a un altro
quesito: le leggi sul risparmio energetico hanno carattere obbligatorio di ordine
pubblico, oppure no? Se lo hanno, siamo a posto: la decisione in assemblea
rende nulle le clausole a proposito del regolamento contrattuale, nonché limita l’applicazione dei pre-esistenti millesimi
calore alla sola suddivisione dei costi fissi di conservazione della caldaia..
Se invece non lo hanno, un patto contrattuale tra i proprietari potrebbe creare
un’eccezione anche alla legge n. 10/1991.
Ci pare da sposare
la tesi che le leggi sul risparmio energetico siano
norme di ordine pubblico, con scopi sociali che le rendono non derogabili dai
singoli così come accade per la norma che impone che ogni nuovo edificio con
riscaldamento centralizzato sia provvisto di contabilizzazione e
termoregolazione del calore. Quindi, quel che vale in
questo caso, dovrebbe essere applicabile anche per gli altri.
Le
soluzioni. Gli orientamenti
pratici
È meglio
raggiungere la soglia dei 501 millesimi
Pur mancando ancora
sentenze della Cassazione in materia, arrischiamo un interpretazione
coordinata della norma,nella speranza che non sia smentita in futuro.
1) Il passaggio da
centralizzato a termoautonomo è ancora agevolato. Infatti
è comunque possibile ottenere minori consumi (e giustificarli attraverso una
relazione tecnica). Questo perché il “vecchio centralizzato”
si basa pur sempre sul principio chela caldaia è accesa anche quando non si è
in casa. E anche perché l’apparecchio esistente
può essere inefficiente, datato tecnologicamente e con problemi di manutenzione
straordinaria da affrontare.
2) Un’analisi tecnica
che, prima della delibera assembleare, preveda il
risparmio futuro e cerchi di quantificarlo, è divenuta necessaria. Meglio
redigerla sotto forma di una “diagnosi”, che suggerisca
il miglior rapporto costi/benefici di più interventi possibili. Probabilmente
ci si accorgerà che il centralizzato-contabilizzato è l’ipotesi migliore, se
non altro perché le nuove norme tecniche prevedono l’installazione di canne
fumarie che servono le caldaie singole con sbocco oltre il colmo del tetto: un
intervento che comporta non solo spesa notevole ma anche difficoltà di
realizzazione che possono essere insormontabili. La
certificazione energetica dell’edificio resta comunque
indispensabile.
3) Secondo un interpretazione letterale l’intervento potrebbe essere
approvato anche con un terzo dei millesimi dei presenti, purchè
ovviamente non votino contro condomini che possiedano una percentuale maggiore
. Pare però più prudente raggiungere i 501 millesimi.
La terza
via. La scelta del distacco
individuale
Principio
decisivo: lo squilibrio termico
In qualsiasi momento
un condomino può staccarsi dall’impianto di riscaldamento comune e installarne uno termoautonomo.L’amministratore
ha un compito difficile: far capire ai condomini che non è per niente
necessario l’assenso dell’assemblea, Ma solo a certi patti. Il primo è
stabilito dall’articolo 1118 del codice civile che
recita: “Il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette,
sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione”. Il secondo è
individuato da una giurisprudenza ormai costante: non si deve determinare uno
squilibrio termico ed un aggravio di spese per i condomini che continuano a
servirsi dell'impianto (sentenze Cassazione 15079/2006, 5974/2004, 6923/2001,
1775/1998, 1597/995). Il terzo è che il
regolamento condominiale non vieti il distacco.
Vediamo il primo
punto. In sostanza, chi si è distaccato non pagherà solo le spese di acquisto in comune del combustibile. Dovrà però continuare
a versare tutte le altre. Attenzione, a nostro avviso non si
tratta solo di quelle di manutenzione ordinaria e straordinaria della caldaia,
ma anche di quelle per il pagamento della ditta che la gestisce (il cosiddetto
“terzo responsabile”), perché i suoi interventi contribuiscono a “conservare”
l’impianto in efficienza.
Quanto al rischio di
“squilibrio termico”, anche non essendo dei tecnici, è possibile fare una
considerazione di buon senso. Se una caldaia serve una cinquantina di appartamenti, è ben chiaro che il distacco di uno solo di
essi non dovrebbe causare troppi problemi. Viceversa se una caldaia è
utilizzata da quattro appartamenti e due di essi si
distaccano, è ovvio che la potenza dell’apparecchio risulterà sovradimensionata
rispetto ai bisogni dei restanti condomini e lo “squilibrio termico” sarà dietro
l’angolo.
Quanto al terzo
punto, la Cassazione (sentenza n. 6923/2001) ha ribadito
che il distacco è vietabile da un regolamento contrattuale, sottoscritto da
tutti. Lo stesso regolamento non può invece esimere il condomino dall’obbligo
di partecipare alle spese di conservazione: lo esclude l’articolo 1138 del codice civile stesso che
afferma che a questa norma non si può fare eccezione.
La sentenza della
Cassazione n. 11152/1997, infine, afferma che un incremento limitato dei costi
degli altri condomini non va giudicato un ostacolo: la soluzione può essere
quella di farli pagare a chi ha installato l’impianto termoautonomo. E’ il
caso, per esempio, dell’intervento per “ritarare” il
funzionamento della caldaia ai bisogni del condominio. *