Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 11 gennaio-18 giugno 1999 n. 6113. (Presidente: Rocchi; Relatore: Cicala; Pm [conforme] Apice; Ricorrente: Ministero delle finanze; Intimati: Zaffoni e altri). Svolgimento del processo La Amministrazione delle Finanze ricorre per cassazione deducendo due motivi articolati in quattro capi avverso la sentenza 76/96 del 23 dicembre 1996 con cui la Commissione Tributaria Regionale di Trento confermava la decisione di primo grado di parziale accoglimento del ricorso avverso avviso di accertamento relativo ai beni caduti nella successione della sig.ra (...) Angheben. In particolare il giudice d'appello riteneva che legittimamente la Commissione di primo grado avesse determinato in lire 150 milioni il valore di un bene dichiarato per errore dai contribuenti in lire 397.650.000; ed avesse attribuito il valore di 243.000.000 ad altro bene di cui era stato dichiarato il valore di 135 milioni (ed accertato dall'Ufficio quello di 307.200.000 lire). Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso la Amministrazione denuncia violazione dell'art. 16 D.P.R. 636/1972 e dell'art. 33 del D.Leg. 346/1990 sottolineando che i contribuenti non hanno mai presentato una dichiarazione integrativa e correttiva della dichiarazione di valore originariamente avanzata, non hanno mai impugnato l'avviso di liquidazione emesso sulla base della loro dichiarazione, ed anzi provvidero al pagamento della parte di imposta non dilazionabile ed a chiedere la rateizzazione del residuo. Con simili argomentazioni la Amministrazione ripropone i delicati problemi connessi alla natura delle dichiarazioni fiscali, ed in particolare di quelle attinenti al valore dei beni, ed alle circostanze in cui é consentito al contribuente di addurre un proprio errore per indicazione di un valore superiore al reale. Il punto di partenza di simile riflessione appare pacifico; é ormai consolidato indirizzo di questa Corte che le dichiarazioni fiscali sono dichiarazioni di scienza e non negoziali o di volontà e che quindi con esse il contribuente si limita a esprimere una propria convinzione in fatto senza assumere - di per sé - alcun vincolo giuridico nei confronti della amministrazione. Da questa constatazione discende, ovviamente, la possibile rilevanza dell'errore, ma ciò non comporta necessariamente che tale errore sia sempre ed in qualunque momento deducibile; ed infatti un filone giurisprudenziale di questa Corte individua, sia pure con rilevanti incertezze, taluni termini superati i quali al contribuente non sarebbe più consentito "correggere" la propria denuncia. Sembra al collegio che sulla soluzione del problema incida anche la natura della base imponibile su cui si applica l'imposta e che forma oggetto della denuncia. Così, ad esempio, nella applicazione della imposta di registro agli atti a titolo oneroso assume primario rilievo il corrispettivo pecuniario (art. 51 D.Leg. 131/1986, secondo cui il valore del bene entra in gioco solo ove sia superiore al corrispettivo); e riesce difficile supporre che le parti nella stipulazione del contratto indichino "per errore" un prezzo superiore al reale. Nell'imposta sulle successioni il riferimento é invece - ovviamente - solo al valore dei beni ed é quindi agevolmente configurabile un errore del contribuente a proprio danno. Per quanto attiene, invece, al termine entro cui l'errore potrebbe essere dedotto, una parte della giurisprudenza lo ha fatto coincidere con il termine entro cui può essere presentata la dichiarazione, rectius la dichiarazione può essere presentata senza incorrere nelle sanzioni che colpiscono il contribuente refrattario o infedele. Si é così affermato che le prescrizioni di forma e di tempo, fissate per le dichiarazioni fiscali (ad esempio dagli artt. 8 e 9 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600) non sono compatibili con una revisione "a posteriori" delle dichiarazioni stesse (Cass. 2 aprile 1997, n. 2855; e in riferimento alla denuncia di successione la sentenza n. 6700 del 10 luglio 1998; cfr. anche Cass. 5 febbraio 1996, n. 946). A ben vedere, simile tesi appare però superabile. Infatti, il termine posto dalla legge per la presentazione di denunce fiscali non é almeno di regola, e non lo é sicuramente nell'ambito della imposta di successione che qui entra in gioco, un termine decadenziale; ma soltanto un termine il cui mancato rispetto determina la applicazione di sanzioni. Nell'ambito della imposta di successione é, poi, normativamente prevista la presentazione di denunce integrative (art. 28, 6' comma) in caso di sopravvenienze attive. Nel caso di specie é pacifico che il termine é stato rispettato e la denuncia (almeno secondo il giudice tributario) non era infedele, in quanto non veniva indicato un valore dei beni inferiori al reale, ma se mai un valore superiore. L'imposta deve, poi, essere applicata sul valore del bene; e la amministrazione può ovviamente prender per buono il valore dichiarato dal contribuente e non é certo tenuta ad "accertamenti in riduzione". Ma non si riesce a scorgere un qualche motivo per cui nell'ambito del contenzioso, ed ove ciò sia dedotto dalla parte privata, il giudice non possa accertare un valore inferiore al dichiarato. Non appare preclusivo il fatto che la Amministrazione abbia provveduto alla liquidazione della imposta ex art. 33 (ed essa sia stata pagata). Infatti se la dichiarazione del contribuente non ha natura negoziale, l'atto di riscossione non può assumere il valore di accettazione di una proposta, ma costituisce solo un adempimento doveroso da parte dell'Ufficio del Registro. La modificabilità della denuncia, per cui in base al 3' comma dell'art. 31 si applica il medesimo termine apposto alla denuncia stessa, riguarda poi la correzione di quelle inesattezze da cui possono derivare conseguenze negative, che vengono impedite dalla tempestiva modifica. Ma - come si evince chiaramente dal primo comma dell'art. 33 - ben assumono rilievo giuridico le dichiarazioni presentate dopo la scadenza del termine, ed addirittura dopo che sia stato emesso avviso di accertamento. Solo esse non possono paralizzare gli accertamenti già notificati; e ciò per l'ovvio motivo che altrimenti i contribuenti sarebbero incoraggiati a non presentare alcuna dichiarazione. Nell'ambito di simile quadro normativo manca, dunque, ogni appiglio per ritenere che la scadenza del termine impedisca al contribuente di dedurre un suo errore nella attribuzione del valore. A sostegno di simile soluzione può del resto venir addotto un rilevante filone di giurisprudenza; si può ad esempio ricordare la sentenza di questa Corte n. 3080 del 9 aprile 1997 (cui si può accostare la sentenza n. 1088 del 9 febbraio 1999) secondo cui il rimborso di quanto versato sulla scorta della dichiarazione dei redditi può validamente fondarsi sulla deduzione di un errore di fatto o di diritto non percepibile dalla lettura della sola dichiarazione, ma dimostrabile mediante la prospettazione di circostanze ulteriori e diverse da quelle indicate a suo tempo nella dichiarazione medesima (in materia di imposta sulle successioni cfr. la sentenza n. 12819 del 23 dicembre 1998). Ed in questi termini appare anche la sentenza n. 7479 del 30 luglio 1998. Mentre alla luce della sentenza della Cassazione n. 6714 del 10 luglio 1998 una società per azioni che, avendo incluso nell'imponibile un determinato importo, indicato sotto la voce "accantonamento per competenze al personale" (maturate nell'anno di imposta, ma corrisposte nel successivo), ha diritto al rimborso delle imposte inerenti a tale accantonamento, ove deduca che tale accantonamento non era da ricomprendere nell'imponibile. Il motivo deve, in conclusione, essere rigettato. Con il secondo motivo la Amministrazione deduce violazione degli artt. 34 3' comma, 3, 5 e 14 D.Leg. 346/1990 e 115 c.p.c. in ordine al secondo dei beni di cui si discute. Il motivo pur essendo enunciato come violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.) delinea nella sostanza un difetto di motivazione in quanto asserisce che erroneamente i giudici di merito avrebbero poggiato la loro decisione sulle risultanze di una consulenza. Ma simile argomentazione sì attinente al fatto si sottrae al sindacato di questa Corte, dal momento che il giudice di merito ha fatto uso di argomentazioni non contradditorie, né implicitamente irrazionali, quali appunto il richiamo ad una consulenza d'ufficio ed agli elementi acquisiti dal consulente. Non vi é luogo a provvedere sulle spese. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.