Cassazione civile, SEZIONE II, 6 ottobre 2000, n. 13332 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill. mi Sigg. ri Magistrati: Dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Presidente Dott. Antonio VELLA – Consigliere Dott. Roberto Michele TRIOLA – Consigliere Dott. Umberto GOLDONI – Consigliere Dott. Sergio DEL CORE - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: LEORATO UGO, BELLINI BLANDINA, elettivamente domiciliati in ROMA VIAG. PISANELLI 4, presso lo studio dell'avvocato GIGLI GIUSEPPE, che li difende unitamente all'avvocato GALICE ALBERTO, giusta delega inatti; - ricorrenti –contro S. P. F SRL, in persona del suo legale rapp. te Sig. SANTI SERGIO,elettivamente domiciliato in ROMA C. NE CLODIA 29, presso lo dell'avvocato RICCI PIETRO, che lo difende unitamente all'avvocato SPIAZZI GIANFRANCO, giusta delega in atti; - controricorrente -avverso la sentenza n. 1095-97 della Corte d'Appello di VENEZIA,depositata il 25-07-97; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del10-04-00 dal Consigliere Dott. Sergio DEL CORE; udito l'Avvocato Giuseppe GIGLI, difensore del ricorrente che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato Pietro RICCI, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P. M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marco PIVETTI che ha concluso per il rigetto del ricorso. Fatto Con citazione 11 ottobre 1982, Ugo Leorato e Blandina Bellini esposero che la S. P. F. s. r. l. , obbligatasi con contratto preliminare a vendere loro un appartamento e un garage siti in località Castel d'Azzano, dopo la stipula del definitivo, aveva consegnato ad essi, anziché un garage, un posto macchina ubicato al piano scantinato, rifiutandosi di corrispondere la differenza di prezzo. Inoltre, la stessa venditrice, nell'eseguire alcuni lavori nell'appartamento venduto per eliminare infiltrazioni di umidità , vi aveva arrecato danni. Convennero, pertanto, in giudizio davanti al Tribunale di Verona la s. r. l. S. P. F. , per sentirla condannare alla differenza di prezzo tra l'immobile promesso in vendita e quello effettivamente venduto, alla riduzione in pristino dell'appartamento, nonché al risarcimento del danno. La s. r. l. S. P. F. contestò la domanda e, in via riconvenzionale, chiese la condanna degli attori al pagamento di lire 3. 750. 000, corrispondente all'importo dell'IVA sul prezzo di acquisto del compendio immobiliare. All'esito dell'istruttoria, il Tribunale di Verona, con sentenza 5 maggio 1983, condannava la società convenuta a pagare agli attori la somma di lire 7. 500. 000, oltre gli interessi legali, quale differenza tra il valore del bene consegnato (posto macchina) e quello del bene concordato (garage), rigettando le altre domande. Entrambe le parti proponevano appello: in via principale la s. r. l. S. P. F. e in via incidentale i coniugi Leorato e Bellini. Per quanto ancora interessa, la Corte d'appello di Venezia, in parziale accoglimento del primo dei due gravami, riduceva g lire 2. 142. 857 la somma che la società doveva restituire agli appellati; a detto importo giungeva attraverso l'applicazione al valore del bene pattuito, non indicato nel preliminare ma ricostruito in termini proporzionali, di una percentuale di abbattimento calcolata in relazione alla minore utilità del bene effettivamente consegnato. Condannava, altresì, il Leorato e la Bellini al pagamento dell'IVA sull'importo di 32. 900. 000, esposto in fattura, ritenendo provato che a tale titolo era stata da essi versata la minore somma di lire 518. 000. Avverso tale decisione Ugo Leorato e Blandina Bellini hanno proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi, cui la s. r. l. S. P. F. resiste con controricorso. Diritto Con i primi due motivi - da esaminarsi congiuntamente contenendo le stesse doglianze, l'uno sotto il profilo della violazione di (norma di) legge (art. 1492, comma 1, c. c. ), l'altro dei vizi motivazionali su punto decisivo - i ricorrenti deducono che la Corte territoriale ha stabilito l'ammontare della diminuzione del prezzo non in base a precise valutazioni tecniche, ma a mere congetture, e per di più prendendo in considerazione anziché il prezzo effettivo fissato nel preliminare (in cui peraltro non era indicato il prezzo del garage), quelli fittiziamente indicati nella fattura del 2 ottobre 1981, di per sè non costituente un contratto da cui poter evincere la concreta volontà delle parti. Le sopra riassunte doglianze non possono essere attese. Costituisce ius receptum in giurisprudenza che, poiché la legge non impone particolari criteri da seguire per la determinazione della somma dovuta per riduzione di prezzo in relazione ai vizi della cosa venduta, il ricorso a criteri equitativi ed al prudente apprezzamento del giudice, ancorché non previsto espressamente dal legislatore nella disciplina normativa della vendita, è consentito in questa materia sia in conformità all'origine ed alla tradizione storica dell'actio quanti minoris, sia in applicazione di un principio generale, di cui la disposizione contenuta nell'art. 1226 c. c. costituisce una particolare specificazione in tema di risarcimento del danno. Così la riduzione del prezzo, prevista dall'art 1492 c. c. , va operata diminuendo il prezzo pattuito di una percentuale pari a quella rappresentante la menomazione che il valore effettivo della cosa consegnata subisce a causa dei vizi o della diversità di essa rispetto alla cosa negoziata: e, quando tale percentuale di riduzione non possa essere stabilita nel suo preciso ammontare, il giudice del merito può provvedervi con valutazione equitativa, a norma dell'art 1226 c. c. , insuscettibile di sindacato in sede di legittimità quando non sia inficiata da vizi logici (cfr. sent. nn. 3156-74; 5297-78). D'altra parte, è principio altrettanto consolidato in giurisprudenza quello per cui, affinché il giudice possa procedere alla valutazione equitativa, non è necessario che sussista l'impossibilità assoluta di provare il danno nella sua precisa entità , sufficiente essendo la notevole difficoltà in relazione alle particolarità del caso, alle risultanze processuali, alle posizioni difensive delle parti (sent. nn. 35-88; 736-87; 3353-86; 2171-86). E l'accertamento circa l'esistenza di tale presupposto è giudizio di merito, che va esente dal sindacato di legittimità , ove adeguatamente motivato (sent. nn. 5031-87; 4619-85). Nella specie, i giudici dell'appello hanno inteso ancorare la quantificazione della riduzione di prezzo ai valori indicati dalle parti nelle pattuizioni tra loro intercorse. A tal fine essi, con motivazione logica ed appagante, hanno preso in considerazione, da un canto, il prezzo di lire 47. 000. 000 complessivamente stabilito nel preliminare per l'appartamento e il garage e, dall'altro, il prezzo di lire 32. 900. 000 fissato nel contratto definitivo e, giusta quanto specificato nella fattura del 2 ottobre 1981, comprensivo di lire 29. 900. 000 per l'appartamento, e di lire 3. 000. 000 per il garage. I giudici di seconde cure hanno, quindi, impostato un'equazione nella quale il rapporto tra i primi due termini - ovverosia, il prezzo complessivo del compendio immobiliare indicato in fattura (32. 900. 000) e quello ivi attribuito al garage (3. 000. 000) - è uguale al rapporto fra gli ultimi due termini, costituiti dal prezzo complessivo contenuto nel preliminare (47. 000. 000) e l'incognita X, corrispondente al valore effettivamente imputato dalle parti al garage nel predetto atto; sviluppata la relazione fra i quattro termini come sopra ordinati e ricavato il valore che le parti intesero originariamente attribuire al garage, la Corte del merito, per individuare il quantum da dedurre rispetto alla somma corrisposta, ha equitativamente diminuito del 50% il valore così ottenuto, in considerazione della minore utilità del posto macchina rispetto a quella di un garage o box. Trattasi, all'evidenza, di un giudizio di fatto che, in quanto supportato da congrue e logicamente convincenti argomentazioni, sfugge al sindacato di legittimità . Gli altri profili di doglianza relativi alla pretesa simulazione del prezzo esposto in fattura e alla inidoneità del documento predetto ad assurgere a prova dell'effettiva volontà delle parti, che mai sono stati dedotti nel corso dei gradi di merito, sono palesemente inammissibili, pretendendo con essi i ricorrenti di introdurre nuove questioni in questa sede di legittimità . Può rilevarsi, poi, che la stessa Corte veneziana ha considerato quale prezzo realmente concordato dalle parti quello dichiarato nel preliminare e non gli importi esposti nella fattura, assunti solo come termini di riferimento ai fini dell'enucleazione del valore del garage dal corrispettivo della vendita indistintamente indicato nel predetto contratto. Con il terzo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c. c. , i ricorrenti si dolgono che la Corte d'appello li ha ritenuti debitori per rimborso dell'IVA di lire 3. 367. 000 malgrado la s. r. I. S. P. F. , cui incombeva il relativo onere, non avesse dimostrato di avere versato o di dovere - comunque - versare l'importo di lire 3. 367. 000 per IVA. L'eccezione, oltre che poco perspicua, è del tutto infondata. Essa sembra sottendere una tesi a dir poco singolare; e cioè che il pagamento dell'IVA da parte dell'acquirente di beni o servizi sia subordinato alla prova da parte del venditore di essere soggetto passivo di imposta o di avere assolto l'obbligo di pagamento dell'IVA all'Erario. Tutt'al contrario, in virtù del principio di "cartolarità " che caratterizza la disciplina dell'IVA, l'assoggettabilità all'imposta si ricollega automaticamente alla conclusione di ciascuna operazione imponibile, sia essa costituita dalla cessione di beni o dalla prestazione di servizi, comportante l'emissione di fattura. Con il quarto motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli articoli 1382 e seguenti c. c. e 115, comma 1, c. p. c. in relazione all'art. 2697 c. c. , i ricorrenti addebitano alla Corte d'appello di avere arbitrariamente e senza ragione alcuna ritenuto che la quietanza contenuta nel rogito, in seno al quale l'alienante aveva dichiarato di non avere null'altro da pretendere dagli acquirenti in riferimento allo stipulato contratto di compravendita, si riferisse solo al prezzo di lire 32. 900. 000 con esclusione dell'IVA. Al contrario, la quietanza costituisce prova del pagamento, e cioè dell'esecuzione dell'intera prestazione a favore di chi la rilascia, sicché è arbitrario attribuirle un contenuto ed un significato parziale e più restrittivo rispetto a ciò che da essa risulta. Anche tale motivo contiene censure del tutto inammissibili in questa sede. È appena il caso di ricordare che l'accertamento della volontà delle parti contraenti in relazione al contenuto di un negozio impone un'indagine di fatto affidata al potere discrezionale del giudice di merito, la cui insindacabilità in sede di legittimità trova i suoi limiti nell'inadeguatezza della motivazione, tale da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione adottata, e nella violazione delle regole di ermeneutica. Nella specie, attenendosi alla formulazione letterale delle clausole contrattuali, la Corte territoriale ha osservato che la quietanza contenuta nel rogito si riferisce all'avvenuto saldo del prezzo della vendita indicato in lire 32. 900. 000 senza alcuna menzione dell'I. V. A. La conclusione cui è giunta la Corte del merito è perfettamente logica e in linea anche con i principi in materia fiscale. Di vero, il prezzo pattuito come "complessivo" in ordine a merci o prestazioni per cui è obbligatoria l'emissione della fattura va inteso - non solo in base all'interpretazione della clausola contrattuale ma anche delle norme dispositive in materia di IVA - come prezzo forfetario al netto dell'IVA e non come prezzo inclusivo dell'imposta medesima; di guisa che il tributo deve essere calcolato sul prezzo complessivo pattuito e il venditore o prestatore ha il diritto e l'obbligo di esercitare la relativa rivalsa nei confronti della controparte ai sensi dell'art. 18 D. P. R. 26 ottobre 1972 n. 633. A questa interpretazione della comune volontà delle parti, effettuata sulla base di univoci elementi testuali - che costituisce un giudizio di fatto non censurabile in questa sede perché adeguatamente motivato e non viziato da errori di logica o di diritto - i ricorrenti contrappongono quella secondo cui nel saldo del prezzo doveva ritenersi automaticamente inclusa la parte corrispondente all'importo dell'IVA; essa si risolve, quindi, nella formulazione di un'ipotesi interpretativa alternativa a quella adottata dai giudici di merito. I ricorrenti, infatti, si limitano a indicare elementi ritenuti astrattamente idonei ad orientare in un certo verso l'operazione ermeneutica dei fatti negoziali oggetto di giudizio, mettendoli in contrapposizione con le analoghe valutazioni effettuate dai giudici di secondo grado. In tal modo il motivo si traduce non in una specifica censura del ragionamento seguito dal giudice per arrivare a un certo risultato interpretativo ma nella semplice prospettazione di tesi difformi da quelle recepite dal giudice di merito; del tutto inammissibile in questa sede, attenendo all'ambito della discrezionalità del predetto giudice nella valutazione dei fatti e nella formazione del proprio convincimento, dei quali si finisce per chiedere una revisione, e non ai vizi del convincimento rilevanti ex art. 360 c. p. c Con il quinto ed ultimo motivo, i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 c. c. censurando il ragionamento della Corte territoriale, la quale ha riconosciuto alla s. r. l. S. P. F. la rivalutazione delle somme sulla scorta di una mera presunzione basata sulla sua qualità di imprenditore mentre era necessario, all'opposto, come ritenuto dalla più recente giurisprudenza di legittimità , che la creditrice desse l'esatta e concreta dimostrazione del maggior danno subito. Nemmeno siffatta censura può trovare accoglimento. Questa Corte, in materia di obbligazioni pecuniarie e in relazione al risarcimento del danno da svalutazione monetaria, a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 2368 del 5 aprile 1986 (vedi, successivamente, sent. nn. 5860-94; 11177-94; 795-95; 3187-96; 7235-96), ha ripetutamente affermato che ai fini del riconoscimento del maggior danno sofferto dal creditore a causa della svalutazione monetaria verificatasi durante la mora del debitore, il giudice, pur in assenza di prove specifiche, può: per un verso, considerare, il fenomeno inflattivo quale fatto notorio in relazione a qualsiasi tipo di creditore; per altro verso, pervenire all'accertamento del predetto danno facendo ricorso ad elementi presuntivi o a fatti di comune esperienza quando sia possibile, attraverso le risultanze processuali, individuare la categoria di appartenenza del creditore. Alla luce di tali dati, è possibile infatti pervenire ad una valutazione, secondo criteri di probabilità e normalità , delle modalità di utilizzazione del denaro e quindi degli effetti, nel caso concreto, della ritardata disponibilità dello stesso. Conseguentemente, quando, come nella fattispecie, risulti pacifica l'attività di imprenditore commerciale svolta professionalmente dal creditore, e costui deduca di aver subito danno dal ritardo del debitore nell'adempimento, non è necessario che egli fornisca prova di un danno concreto causalmente ricollegabile alla indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, ben potendosi dedurre, nell'anzidetta situazione ed in base all'id quod plerumque accidit, che se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata impiegata in modo da essere sottratta, in tutto o in parte, agli effetti economici depauperativi propri dell'inflazione. In tale situazione, l'esistenza e l'ammontare complessivo del danno possono essere desunti, mediante ricorso ad una valutazione equitativa giustificata dalla difficoltà di stima del danno in conseguenza del modo di operare dell'inflazione, dalla differenza tra tassi di interesse bancario ed interesse legale, oppure rivalutando la somma in misura corrispondente al tasso di inflazione desumibile dagli indici ISTAT sul costo della vita, salva la prova, a carico del creditore stesso o del debitore, di un danno rispettivamente maggiore ovvero minore, se non addirittura inesistente. Non ignora il Collegio che in tempi più recenti si è andato formando nella giurisprudenza di legittimità un indirizzo assai più rigoroso in tema di prova del maggior danno ex art. 1224, comma 2, c. c. Esso tuttavia non si pone affatto in contrasto con quello precedente e trova giustificazione nel mutato rapporto tra tasso di inflazione, contenuto in valori minimi, e tasso di interesse, elevato, dal 16 dicembre 1990, al 10%. In queste fasi congiunturali, infatti, non è più giustificato un massiccio ricorso alle presunzioni, perlomeno in ordine al quantum del maggior danno ex art. 1224, comma 2, c. c. che, non essendo più ancorabile a fatti notori quali i livelli stabilmente elevati del fenomeno inflattivo, deve essere provato, in base ai principi generali, dal creditore che ne fa richiesta. Viceversa, la mora degli odierni ricorrenti si è protratta in periodi ancora connotati da forti dinamiche inflazionistiche, i cui effetti depauperativi erano solo in parte leniti dall'interesse legale. Deve pertanto ritenersi che correttamente il giudice del merito ha assunto la categoria economica di appartenenza della S. P. F. s. r. l. a fonte di presunzione circa la sussistenza e la quantificazione stessa del danno da svalutazione monetaria, cui l'imprenditore tende a sottrarsi utilizzando solitamente le somme disponibili per le esigenze del ciclo produttivo e per altre occorrenze finanziarie che altrimenti lo costringerebbero a rivolgersi al mercato del credito. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato. A mente dell'art. 91 c. p. c. , i ricorrenti vanno solidalmente condannati alle spese del presente giudizio nella misura indicata in dispositivo. P. Q. M La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, alle spese liquidate in lire 235. 400, oltre a lire 1. 500. 000 per onorari. Così deciso in Roma, il 10 aprile 2000 Nota Redazionale - In senso sostanzialmente conforme cfr.: Cass. 16 novembre 1978 n. 5297; Cass. 25 ottobre 1974 n. 3156.