Cassazione civile, SEZIONE II, 26 giugno 1995, n. 7238 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Mauro SAMMARTINO Presidente " Italico Libero TROJA Consigliere " Giuseppe MOSCATO " " Rafaele CORONA " " Antonino ELEFANTE Rel. " ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso iscritto al n. 8068-92 proposto da da PERTICAROLI ALDO, elettivamente domiciliato in Roma, Via F. Valesio n. 1, presso lo studio dell'Avv. Eugenio Pace che lo difende come da procura a margine del ricorso, successivamente difeso dall'Avv. Massimo De Bonia, come da procura speciale per notaio Giordano Cemmi dell'11.11.1994 Rep. n. 23261. Ricorrente contro PASCOLI BEATRICE, elettivamente domiciliata in Roma, Via della Giuliana n. 9, presso lo studio dell'Avv. Vittorio Morrone, difesa dall'Avv. Tommaso Carpinella come da mandato a margine del controricorso Controricorrente per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Roma n. 363-92 del 19.12.1991 - 11.2.1992; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16.2.1995 dal Cons. Dott. Antonino Elefante. Sentito l'Avv. Tommaso Carpinella. Udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen.le Dott. Antonio Leo che ha concluso per il rigetto del ricorso. Fatto Con atto di citazione 20.1.1987, Aldo Perticaroli, premesso che aveva acquistato da Beatrice Pascoli un locale ad uso negozio da lui già detenuto in locazione, e che nell'atto di compravendita la Pascoli aveva dichiarato che il locale era di mq. 56 mentre in effetti era risultato inferiore di mq, 8,70 a causa di un muro divisorio elevato a suo tempo dalla stessa venditrice per ampliare un locale attiguo, convenne davanti al Tribunale di Roma la Pascoli al fine di ottenere la restitutio in integrum dell'immobile ovvero, in subordine, la riduzione del prezzo, con condanna della venditrice al pagamento della somma di L. 13.920.000 corrispondente al valore della superficie mancante. Il Tribunale rigettò la domanda e tale decisione venne confermata dalla Corte di Appello di Roma, la quale, interpretando il contenuto negoziale del rogito 19.6.1985, ritenne la vendita a corpo e non a misura, ed escluse l'applicabilità dell'art. 1538 c.c. perché il prezzo era stato determinato non con riferimento alla superficie del bene, ma con riguardo esclusivamente alla sua individualità e unità, essendo il riferimento alla superficie e ai dati catastali meramente indicativo e senza alcuna incidenza nella formazione e determinazione del prezzo. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Aldo Perticaroli in base ad un unico motivo, illustrato con memoria. Resiste con controricorso Beatrice Pascoli. Diritto Con l'unico motivo, il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 1538 c.c., in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., censura la sentenza impugnata laddove, interpretando le disposizioni contrattuali, ha ritenuto la vendita a corpo e non a misura ed ha escluso la rettifica del prezzo ex art. 1538 c.c., pur essendo la superficie del locale inferiore di oltre un ventesimo rispetto a quella indicata in contratto. Sostiene il ricorrente che la corte territoriale non avrebbe considerato l'art. 6 del contratto, contenente la dichiarazione delle venditrice di non aver eseguito opere nell'immobile, dando così certezza all'acquirente che il bene acquistato era del tutto corrispondente nella superficie a quello indicato in contratto sulla base dei dati catastali; nè in particolare avrebbe considerato che l'art. 1538 c.c. si applica alle vendite a corpo validamente stipulate e a quelle inficiate da mero errore, mentre non opera quando la stipulazione a corpo sia stata determinata da "dolo" del venditore, ossia quando l'errore sulla esatta estensione del bene sia conseguenza del raggiro posto in essere dal venditore e sia la ragione che ha determinato il compratore ad acquistare l'immobile a corpo e non a misura, nel qual caso quest'ultimo ben può invocare l'annullamento del contratto ai sensi dell'art. 1427 c.c.. Il ricorso è fondato in base alle seguenti considerazioni. Premesso che la censura relativa al "dolo" contrattuale, sollevata nell'ultima parte, si configura come domanda nuova, mai dedotta nelle pregresse fasi di merito, come tale, del tutto inammissibile, non essendo consentito in sede di legittimità la proposizione di nuove questioni, mentre eventuali altre censure (esposte in memoria) sono irricevibili, va osservato che, come emerge dalla sentenza impugnata, la corte distrettuale ha rigettato la domanda subordinata del Perticaroli, intesa ad ottenere una riduzione del prezzo per la minore superficie del locale venduto rispetto a quella indicata nell'atto, in base al rilievo che le parti, pur avendo indicato la superficie dell'immobile in mq. 56, non avevano fissato il prezzo in ragione di un tanto per ogni metro quadrato, ma lo avevano determinato in modo unitario e globale. Il rilievo suddetto vale semplicemente ad escludere, così come esattamente ritenuto in sentenza, che il caso di specie fosse riconducibile alla vendita immobiliare cd. "a misura" di cui all'art. 1537 c.c. - che è caratterizzata appunto dal fatto che il prezzo dell'immobile compravenduto è stabilito "in ragione di un tanto per ogni unità di misura" - e a far concludere che esso s'inquadra nello schema della vendita cd. "a corpo", di cui all'art. 1538 c.c., che è caratterizzata dal fatto che il prezzo è determinato "in relazione al corpo dell'immobile e non alla sua misura, sebbene questa sia stata indicata", in relazione cioè al bene nella sua entità globale. Ma la diminuzione del prezzo - che è sempre effettuata nel caso di vendita a misura quando l'estensione effettiva dell'immobile sia inferiore a quella indicata nel contratto - è dovuta anche nella vendita a corpo quando le parti abbiano indicato, tra l'altro, la misura del bene e lo scarto tra la misura reale è quella indicata in contratto risulti inferiore di un ventesimo; mentre nella sentenza impugnata non risultano spiegate, in maniera sufficiente, adeguata e giuridicamente corretta, le ragioni per le quali è stato escluso, che nel caso specifico, potesse trovare applicazione il disposto dell'art. 1538 c.c.. Dire, infatti, come fa la corte distrettuale nella sentenza impugnata, anche se traendo spunto da quanto affermato da questa Corte in alcune decisioni (Cass. 25.7.1980 n. 4838; 25.2.1982 n. 1196; 29.1.1983 n. 827; ma già Cass. 12.4.1983 n. 2575 collegava il rimedio della diminuzione e del supplemento di prezzo, previsto dall'art. 1538 c.c. per le vendita a corpo, più propriamente al mero presupposto oggettivo della differenza di un ventesimo tra misura reale e misura indicata nel contratto), che le parti non hanno collegato il prezzo all'estensione del locale, che è stata indicata, unitamente ai dati catastali, solo ai fini di un'ulteriore specificazione dell'immobile, ma senza alcuna incidenza nella formazione e determinazione del prezzo stesso, significa soltanto ribadire che, nel caso di specie, si era in presenza di una vendita a corpo, la quale come accennato sopra, è caratterizzata appunto dal fatto che il prezzo è convenuto in relazione al bene nella sua entità globale, cioè dal fatto che non è stabilito nessun collegamento tra il prezzo e la misura del bene - la quale, pertanto, se indicata, lo è al fine meramente descrittivo o anche come ulteriore mezzo di individuazione del bene, ovvero per fine diverso - ma non può certamente valere a spiegare le ragioni per le quali, nel caso specifico, si era ritenuto di escludere l'applicabilità del rimedio della rettifica del prezzo, che l'art. 1538 c.c. prevede, sì, a certe ben specificate condizioni, ma pur sempre con riferimento ad una vendita che, in tesi, è caratterizzata dal fatto della mancanza di collegamento tra il prezzo e la misura dell'immobile compravenduto. Ed, invero, essendo, il fatto della mancanza di collegamento tra il prezzo e la misura del bene, un elemento indefettibile della vendita "a corpo", non può, esso, determinare la non applicabilità del rimedio della rettifica del prezzo, perché se così fosse, mai nelle vendita a corpo, potrebbe trovare applicazione tale rimedio, del quale invece la norma espressamente prevede l'applicazione, sia pure a certe ben determinate condizioni. Il problema va risolto prendendo appunto le mosse dal dato normativo il quale non lascia intravedere la necessità di una indagine sull'intenzione dei contraenti, perché l'art. 1538 c.c. prende in considerazione il fatto obiettivo e vuole solo dire che, anche quando il prezzo sia a corpo, e, quindi, non sia fissato ad un tanto per ogni unità di misura, se questa è indicata e la realtà è diversa per almeno un ventesimo si ha sempre diritto a modificare il prezzo o a recedere dal contratto. La norma non contiene un modello interpretativo del contratto, ma piuttosto gli attribuisce essa stessa certi effetti (integrativi) ricavati dalla semplice indicazione contrattuale della misura. Non v'è dubbio che la norma, posta per eliminare contrasti ed ispirata soprattutto a criteri equitativi, è di carattere dispositivo; ma per essere disapplicata occorre provare che le parti abbiano manifestato la volontà di derogare alla stessa, comprovando che abbiano voluto proprio e solo quel prezzo. L'impostazione data alla questione dalla sentenza impugnata non solo incorre nei rilievi di cui sopra, ma si pone anche in contrasto con quanto già affermato al riguardo da questa Corte; vale a dire che anche nella vendita immobiliare a corpo la menzione nel contratto della misura del bene costituisce, nella previsione dell'art. 1538 c.c., un elemento cui la norma stessa, ricorrendo determinati presupposti di carattere oggettivo (misura reale del bene inferiore o superiore di un ventesimo rispetto a quella indicata in contratto) attribuisce importanza ai fini della possibilità di chiedere la rettifica del prezzo, che può essere ritenuta esclusa solo nel caso in cui, dalla interpretazione del contratto, risulti che le parti abbiano inteso derogare alla norma medesima, escludendone l'applicabilità per aver considerando del tutto irrilevante la effettiva estensione dell'immobile, quale che essa sia (Cass. 9.7.1991 n. 7594). Con riguardo a tali considerazioni, le argomentazioni che sorreggono il punto della decisione oggetto della censura in esame, sono inadeguate, insufficienti e giuridicamente non corrette, onde la sentenza impugnata va cassata con rinvio della causa, per nuovo esame, ad altra sezione della stessa Corte d'Appello di Roma, che - qualunque sia per essere la sua decisione sul punto - si atterrà a quanto suesposto e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M La Corte di Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione Civile, il 16 febbraio 1995.