Cass_26_4_02_6079 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza n. 6079 del 26/04/2002 Acquisto per usucapione - Animus possidendi - Fattispecie Ai fini dell’acquisito per usucapione l'animus possidendi - da presumersi iuris tantum in presenza del corpus possessionis - consiste unicamente nell'intento di tenere la cosa come propria o di esercitare il diritto come a sé spettante, indipendentemente dalla conoscenza che si abbia del diritto altrui e del regime giuridico del bene su cui si esercita il potere di fatto. Ai fini dell'usucapione, dunque, non è necessaria la convinzione di esercitare un potere di fatto in quanto titolare del relativo diritto, ma è sufficiente che tale potere venga esercitato come se si fosse titolare di detto diritto. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 Con sentenza 27/3/1996 il tribunale di Rieti accoglieva la domanda proposta dalle sorelle Sofia e Cesarina Cecchini - proprietarie di un terreno confinante con quello di Vittorio Gabrieli autore nel 1987 di un manufatto - e condannava il convenuto Gabrieli a demolire la porzione del detto manufatto che, secondo le rilevazioni del c.t.u., era andata ad insistere sul terreno delle attrici. Il giudice di primo grado rigettava l'eccezione di usucapione sollevata dal convenuto.
Avverso la detta sentenza il Gabrieli proponeva appello al quale resistevano le Cecchini.
La Corte di appello di Roma, con sentenza 11/12/1998, accoglieva il gravame e, in riforma dell'impugnata decisione, rigettava la domanda delle Cecchini ed accoglieva quella riconvenzionale del Gabrieli volta ad ottenere la dichiarazione di usucapione a suo favore del terreno in contestazione. Osservava la Corte di merito: che, come emergeva dalle prove testimoniali e documentali raccolte, la recinzione tra i fondi delle parti era stata posta, in sostituzione di fratte, dai danti causa (genitori) delle Cecchini almeno trenta anni prima del giudizio; che in virtù di tale recinzione la striscia di terreno in questione era venuta a trovarsi a far parte del terreno del Gabrieli; che dall'esercizio in tale striscia di terra del possesso da parte del Gabrieli, mediante coltivazione ad orto, derivava l'acquisto per usucapione del detto bene immobile; che la circostanza relativa al demarcamento confinario ad opera dei danti causa delle sorelle Cecchini, non escludeva l'animus possidendi da parte del Gabrieli ma, al contrario, dimostrava che persino costoro erano persuase della legittimità di quel confine e, quindi, del possesso da parte dell'appellante; che del pari non rilevavano le trattative intercorse anteriormente alla causa potendo ragionevolmente ciò attribuirsi all'intento di evitare una lite, piuttosto che alla convinzione dell'illegittimità del possesso.
La cassazione della sentenza della Corte di Appello di Roma è stata chiesta da Sofia e Cesarina Cecchini con ricorso affidato ad un unico motivo. Gabrieli Vittorio ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
 MOTIVI DELLA DECISIONE Con l'unico motivo di ricorso le sorelle Cecchini denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 1158 e 1167 c.c., nonché omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Deducono le ricorrenti che nella specie non sono stati accertati tutti gli elementi richiesti dalla legge ai fini del riconoscimento dell'acquisto del diritto di proprietà per usucapione. La Corte di merito, fondando la decisione sulla constatazione di fatti oggettivi (esistenza della recinzione) e di attività da essa qualificata come riconducibili al possesso, non ha accertato la ricorrenza dei presupposti e dei requisiti dei possesso ad usucapionem (segnatamente dell'animus possidendi) ed ha in sostanza esonerato l'attore in riconvenzione dall'onere della prova su di lui incombente. Inoltre dalla esistenza della recinzione non poteva trarsi di per sé un argomento decisivo per affermare l'acquisto per usucapione. Per di più la Corte di Appello non ha dato alcun rilievo alla circostanza che quella recinzione era stata eseguita dal dante causa di esse Cecchini. Il giudice di secondo grado, con evidente salto logico e con ulteriore apodittica affermazione, ha tratto la convinzione che vi fosse l'animus possidendi per esclusione (affermando che il fatto che la recinzione fosse stata eseguita dal dante causa di esse ricorrenti non escludeva l'animus possidendi). L'errore di diritto e la incongruità della motivazione sono quindi evidenti in quanto il giudice di appello avrebbe dovuto verificare se il Gabrieli avesse fornito la prova dell'animus possidendi. Le argomentazioni che caratterizzano l'iter logico seguito dalla corte di merito sono peraltro in palese contrasto con le risultanze istruttorie e, in particolare, con le deposizioni testimoniali.
La Corte rileva l'infondatezza delle dette censure che, pur se titolate come violazione di legge e come vizi di motivazione, si risolvono essenzialmente in una diversa valutazione del merito della causa e, come tali, sono inammissibili in questa sede di legittimità.
Occorre premettere che, come è noto e pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, l'accertamento relativo al possesso ad usucapionem, alla rilevanza, alla validità ed all'univocità delle relative prove, nonché alla determinazione del tempo utile al verificarsi della usucapione, è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se - come nella specie - sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
La statuizione impugnata si sottrae alle critiche mosse dalle ricorrenti perché il giudice di appello ha motivato il risultato positivo di detto accertamento e delle connesse indagini con argomenti e rilievi logicamente adeguati oltre che coerenti con i criteri giuridici relativi alla disciplina dell'istituto dell'usucapione. In particolare la Corte di merito - avvalendosi del suo insindacabile potere discrezionale circa la valutazione delle prove - ha sottolineato che dopo l'apposizione della recinzione da parte dei genitori delle Cecchini (avvenuta ben trenta anni prima dell'inizio del giudizio) si è verificato l'esercizio dei possesso esclusivo (ed animo domini) della striscia di terreno in questione, posta al di là di tale recinzione, da parte dei confinanti Gabrieli i quali hanno coltivato ad orto detto terreno.
Ad avviso della corte di appello la descritta situazione di fatto emersa dalle risultanze istruttorie - caratterizzata da una prolungata e continua (per oltre trenta anni) relazione concreta con il bene immobile in questione con esercizio di un potere di fatto su detto bene - si è tradotta in una signoria piena e non contrastata da parte del Gabrieli ed escludente la permanenza di una incompatibile signoria altrui. E' evidente, quindi, il giudizio positivo espresso dalla corte di merito in ordine all'acquisizione della prova - fornita dal Gabrieli - sulla sussistenza nella specie dell'elemento soggettivo dell'animus possidendi, ossia dell'intenzione di escludere la possibilità di esercizio del possesso da parte di altri.
Al riguardo è sufficiente evidenziare che, secondo i principi affermati da questa Corte in tema di possesso, l'animus possidendi - da presumersi iuris tantum in presenza del corpus possessionis - consiste unicamente nell'intento di tenere la cosa come propria o di esercitare il diritto come a sé spettante, indipendentemente dalla conoscenza che si abbia del diritto altrui e del regime giuridico del bene su cui si esercita il potere di fatto: ai fini dell'usucapione, l'animus rem sibi habendi non è necessario consista nella convinzione di esercitare un potere di fatto in quanto titolare del relativo diritto, bensì che tale potere venga esercitato come se si fosse titolare di detto diritto (tra le tante, sentenze 12/5/1999 n. 4702; 5/9/1998 n. 8823). Bisogna altresì ribadire che l'accertamento in ordine all'esistenza ed al contenuto della detta signoria sul bene e all'esercizio del relativo potere - il tutto necessario ai fini dell'acquisto del diritto dominicale - appartiene in via esclusiva al giudice del merito il cui giudizio, per essere adeguato ed incensurabile in sede di legittimità, deve fondarsi (come nel caso in esame) sulla verifica della coerenza della situazione di fatto, emersa all'esito delle risultanze probatorie, ai parametri legali del possesso valido ai fini dell'usucapione.
La corte territoriale ha affermato la concreta operatività della fattispecie acquisitiva su affermazioni adeguatamente esposte nonché sulla valorizzazione di elementi univoci e non solo (come sostenuto dalle ricorrenti) sulla mera circostanza di fatto relativa alla apposizione della recinzione da parte dei danti causa delle Cecchini, bensì anche su un'attività (coltivazione ad orto della striscia di terreno in questione da parte del Gabrieli) ritenuta incompatibile con l'altrui diritto oltre che non giustificabile da un titolo diverso (locazione, comodato o altro).
La corte di merito ha dato conto delle proprie valutazioni fornendo compiuta ragione del ravvisato possesso esclusivo del Gabrieli (incompatibile con l'esercizio del diritto dominicale da parte del titolare di tale diritto) ed ha al riguardo anche sottolineato che l'apposizione della recinzione (come "demarcamento confinario") da parte dei danti causa delle Cecchini stava ad indicare che gli stessi vicini erano persuasi della legittimità di quel confine così come delimitato dalla recinzione, ciò a dimostrazione anche dell'animus possidendi da parte del Gabrieli.
Coerentemente poi il giudice di secondo grado ha escluso la possibilità di riscontrare nelle intercorse trattative tra le parti una prova contraria all'esercizio del possesso ad usucapionem: trattasi, come é evidente, di una circostanza inidonea a dimostrare l'esclusione dell'elemento soggettivo del detto possesso, ovvero la convinzione dell'illegittimità del possesso, ben potendo l'accettazione delle trattative essere frutto della scelta di evitare l'insorgere di una lunga e defatigante lite giudiziaria.
E' appena il caso di rilevare infine che le censure e le critiche mosse dalle ricorrenti, circa l'errore in cui sarebbe incorsa la corte distrettuale nell'interpretare e nel valutare le risultanze probatorie con particolare riferimento alla prova testimoniale, non sono meritevoli di accoglimento, oltre che per l'incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito, anche per la loro genericità. Nel giudizio di legittimità il ricorrente, che deduce l'omessa o l'erronea valutazione delle risultanze probatorie, ha l'onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo dell'asserito errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare - sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative - l'incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perché relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia; costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base.
Al riguardo è sufficiente ribadire che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.
Nella specie il ricorso è carente sotto l'indicato aspetto in quanto non riporta il contenuto specifico e completo delle prove testimoniali cui si fa generico cenno nella censura in esame e non fornisce alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di tali risultanze probatorie. La detta omissione non consente di verificare l'incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dal ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con la conseguente condanna delle ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi euro 98,00, oltre euro 1.000,00 a titolo di onorari.