Cass_24_10_95_11036 Cassazione civile, SEZIONE II, 24 ottobre 1995, n. 11036
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Vincenzo DI CIÒ Presidente
" Cesare MAESTRIPIERI Consigliere
" Raffaele MAROTTA Rel. "
" Mario SPADONE "
" Rafaele CORONA "
ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto
da
S.N.C. MARZANO E MAZZACANE di Marzano Giuseppe e Mazzacane Pietro, in liquidazione, in persona dei suoi liquidatori Giuseppe Marzano e Pietro Mazzacane, e quest'ultimo, occorrendo, anche in proprio, rappresentati e difesi, giusto mandato a margine del ricorso, dagli avv.ti Benito Marrone e Franco Toni, domiciliati ex lege presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione (il domiciliatario dal domicilio eletto presso l'avv.to F. Toni in Roma alla via Giuseppe Palumbo n. 12 nello studio dell'avv.to Gaetano Alessi, risultava, giusta relazione dell'uff. giud. notificante del 28 novembre 1994, trasferito altrove ed il nuovo indirizzo non risultava essere stato comunicato in Cancelleria).
Ricorrente
contro
LADISA DOMENICO
Intimato
per la cassazione della sentenza resa inter partes dalla Corte di Appello di Bari in data 30 maggio 1992, nella causa civile in grado di appello, iscritta al n. 59 del R.G. dell'anno 1988.
udita, nella pubblica udienza dell'11 gennaio 1995, la relazione della causa svolta dal Cons. dott. Raffaele Marotta;
sentito il P.M., nella persona del dott. A. Carnevali, Sost. Proc. Gen., il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
 Fatto Con atto di citazione notificato il 14 ed il 26 luglio 1984, Domenico Ladisa - premesso che, in data 26 settembre 1983, egli aveva stipulato, con la società in nome collettivo, Edil Marzano e Mazzacane di Giuseppe Marzano e Pietro Mazzacane, un contratto preliminare di vendita avente ad oggetto un appartamento da un piano cantinato, da un piano terra e da un primo piano, facente parte del fabbricato sito in Bari alla via Ravanas nn. 23-25; che l'appartamento, del quale aveva subito ottenuto la disponibilità, già nel mese di dicembre del 1983 aveva manifestato gravi difetti, consistente essenzialmente in un notevole e continuo affiorare di acqua nel piano cantinato e nella comparsa di una diffusa umidità su tutte le pareti dell'unità immobiliare; che la società promittente venditrice, cui i difetti suddetti furono denunciati con raccomandata del 22 dicembre 1983, si era impegnata ad eseguire a sue spese i lavori necessari per eliminare i lamentati inconvenienti; che alcuni lavori vennero in effetti eseguiti, tanto che egli successivamente, in data 31 gennaio 1984, in buona fede, si era indotto a stipulare il contratto definitivo di compravendita, versando interamente la somma dovuta a titolo di prezzo; che, però, gli inconvenienti si erano ben presto ripresentati addirittura in modo più grave, interessando ormai la umidità risalente dal sottosuolo tutti gli ambienti e perfino i mobili e le suppellettili al punto da rendere l'appartamento inabitabile - tutto ciò premesso, conveniva davanti al Tribunale di Bari la nominata società in nome collettivo, chiedendo che venissero accertati i difetti dell'appartamento compravenduto e la imputabilità di essi alla società convenuta e questa condannata al risarcimento, in suo favore, di tutti i relativi danni, nella misura da determinarsi in corso di causa.
La società convenuta si costituiva e contestava la fondatezza della domanda, della quale chiedeva il rigetto, deducendo che - eseguiti i lavori diretti ad eliminare i lamentati inconvenienti sotto la direzione di un ingegnere di fiducia del Ladisa - quest'ultimo aveva acquistato, in data 31 gennaio 1984, l'appartamento, senza formulare alcuna riserva in ordine al fenomeno della umidità, a suo avviso da ricondurre, peraltro, al fatto che l'appartamento era stato dal Ladisa tenuto sempre chiuso, la qual cosa aveva favorito la condensazione dei vapori sulle pareti dei vari ambienti.
All'udienza di prima comparizione, l'attore precisava la domanda formulata con l'atto di citazione ed, in via subordinata, chiedeva che, qualora dalla disponenda consulenza tecnica fosse risultata la irreparabilità dei vizi lamentati o la inabitabilità dell'appartamento, venisse pronunciata la risoluzione del contratto di compravendita, con la conseguente condanna della società convenuta al risarcimento del danno.
Veniva, così, disposta consulenza tecnica ed, all'esito delle indagini del caso, il C.T.V. esprimeva il parere, ribadito in sede di chiarimenti resi all'udienza del 18 marzo 1986, che l'appartamento fosse da considerare inabitabile per l'alto tasso di umidità che lo rendeva insalubre.
L'esito delle indagini tecniche induceva l'attore ad abbandonare immediatamente l'appartamento in questione ed a prenderne in locazione un altro, l'importo delle cui pigioni veniva poi chiesto in rimborso.
Frattanto, interveniva in causa Pietro Mazzacane, in proprio, aderendo alle difese spiegate dalla società convenuta in liquidazione.
All'esito della istruzione del caso, il Tribunale, con sentenza del 28 novembre 1987, così provvedeva:
- pronunciava la risoluzione del contratto di compravendita stipulato tra le parti con atto per notaio Rotondo del 31 gennaio 1984, e, conseguentemente, condannava la società convenuta a restituire al Ladisa, tenuto a sua volta alla restituzione dell'appartamento, la somma di lire 150.000.000 (prezzo della vendita), unitamente alla somma di L. 30.000.000 per interessi e rivalutazione, oltre ulteriori interessi sulla complessiva somma di L. 180.000.000 a decorrere dalla sentenza e fino alla data del pagamento;
- condannava, inoltre, la società convenuta a pagare, in favore dell'attore, la somma di L. 14.000.000, oltre interessi legali con la stessa decorrenza di cui sopra, a titolo di rimborso delle pigioni corrisposte dall'attore per la locazione di un altro appartamento.
Riteneva il Tribunale che la causa del fenomeno della umidità e la inabitabilità dell'appartamento erano state accertate solo a seguito della espletata consulenza tecnica, sicché si doveva concludere che il Ladisa aveva acquistato l'appartamento in buona fede, nella convinzione cioè che questo, a seguito dei lavori di riparazione eseguiti dalla società promittente venditrice, fosse ormai privo di difetti.
Osservava, poi, il Tribunale che era incontestato che il prezzo della vendita fosse quello di L. 150.000.000, anche se esso nel contratto definitivo era stato simulatamente indicato in L. 75.000.000.
Avverso tale sentenza proponeva appello la s.n.c. "Edil Marzano e Mazzacane", in liquidazione, che, in via istruttoria, chiedeva che fosse disposto un supplemento di consulenza tecnica, per accertare l'attuale stato dell'appartamento compravenduto, con riguardo al tasso di umidità ed alla abitabilità dello stesso.
Al gravame resisteva il Ladisa, il quale, nella comparsa di risposta, chiedeva il rigetto dell'appello, con la conferma integrale delle sentenza impugnata, e, in via subordinata, la riduzione del prezzo della vendita, nella misura della verificatasi diminuzione di valore dell'appartamento compravenduto, con la condanna, in ogni caso, della società venditrice al risarcimento dei danni.
Assunta una prima volta la causa in decisione, la Corte di Appello di Bari, con ordinanza del 16 febbraio 1990, la rimetteva in istruzione, disponendo una nuova consulenza tecnica.
Questa espletata, la Corte territoriale, sulle conclusioni espressamente rassegnate dalle parti (in tale sede, l'appellato Ladisa chiedeva in via principale la riduzione del prezzo di vendita), con sentenza del 30 maggio 1992, in parziale riforma della decisione impugnata, così provvedeva:
- accoglieva la domanda estimatoria proposta dal Ladisa ex art. 1492 c.c. e riduceva il prezzo di vendita dell'appartamento di complessive L. 21.650.000; conseguentemente, condannava la società venditrice a restituire al Ladisa la predetta somma di L. 21.650.000, oltre alla somma di L. 11.750.000, a titolo di interessi e maggior danno maturati fino alla data della sentenza di secondo grado, ed agli ulteriori interessi di legge sulle somme come innanzi valutate, a decorrere dalla data della detta sentenza;
- confermava la statuizione di condanna della società venditrice al pagamento, in favore del Ladisa, della somma di L. 14.000.000, oltre accessori.
- compensava tra le parti per un quarto le spese del doppio grado di giudizio e condannava la società a rimborsare al Ladisa gli altri tre quarti di tali spese.
Premesso (riportando l'iter argomentativo della motivazione secondo un ordine logico) che essa condivideva appieno il pare espresso dal C.T.V. nominato nel giudizio di secondo grado, il quale aveva affermato che i vizi riscontrati non rendevano l'appartamento inidoneo all'uso abitativo, anche se ne diminuivano il valore in modo apprezzabile, specie in considerazione del fatto che il locale cantinato, per i difetti riscontrati, doveva essere ritenuto del tutto inutilizzabile; che meritava di essere condivisa anche la determinazione della diminuzione di valore dell'appartamento, stimata dal C.T.V. sulla complessiva somma di L. 21.650.000, arrotondata per difetto (il 10% del valore complessivo dell'immobile pagato L. 150.000.000=L.15.000.000+L.3.000.000, per costo di lavori ed opere da eseguire + L. 3.655.000, valore proporzionale del locale cantinato inutilizzabile), la Corte del merito, quanto ai punti ancora oggetto di discussione, osservava che:
- la domanda di riduzione del prezzo della vendita, per i vizi dell'appartamento oggetto di questa, era già stata, ed inutilmente, formulata e proposta nel giudizio di primo grado: infatti, a seguito dell'ordinanza del 10 novembre 1984, con la quale il giudice istruttore invitò l'attore a precisare e puntualizzare la domanda, all'udienza del 18 dicembre 1984 il procuratore del Ladisa - che, già all'udienza di prima comparizione del 16 ottobre 1984, aveva chiesto che, qualora dalla disponenda consulenza tecnica fosse risultata la irreparabilità dei vizi lamentati o la inabitabilità dell'appartamento compravenduto, si fosse pronunciata la risoluzione del contratto di compravendita - riformulò la domanda di risoluzione e, in via subordinata, per il caso in cui tale domanda fosse risultata infondata, chiese la riduzione del prezzo della vendita, e neppure in tale udienza il procuratore della società convenuta - che già all'udienza di prima comparazione non aveva sollevato eccezioni di sorta in ordina alla introduzione delle domande nel processo - ebbe ad eccepire alcuna novità di domande, ché, anzi, discusse sull'ammissibilità dei mezzi istruttori diretti a provare il fondamento delle domande spiegate dall'attore; solo all'udienza del 26 novembre 1985, dopo che tra le parti si era dibattuto sul merito della controversia, il procuratore della società convenuta ebbe a spiegare difese in tale direzione, eccependo, però, la tardività della proposizione della domanda di risoluzione del contratto di compravendita e nulla, invece, opponendo alla domanda subordinata di riduzione del prezzo, ed, in sede di discussione (verbale dell'udienza del 13 maggio 1987), eccepì, anzi, la inammissibilità della domanda redibitoria dopo che era stata spiegata quella estimatoria, così confermando l'accettazione del contraddittorio in ordine a quest'ultima; e la domanda di riduzione del prezzo non venne affatto abbandonata in sede di precisazione delle conclusioni: infatti, come risultava dal relativo verbale, all'udienza del 1 luglio 1986, il procuratore del Ladisa si riportò a tutte le richieste, eccezioni e deduzioni formulate nei propri scritti difensivi e ne chiese l'accoglimento, pur insistendo principalmente sulla domanda di risoluzione del contratto;
- pertanto, la domanda di riduzione del prezzo, formulata in via principale in sede di precisazione delle conclusioni all'udienza del 13 dicembre 1990, essendo già stata proposta nel giudizio di primo grado e non essendo mai stata abbandonata, non poteva essere considerata come una domanda nuova in appello, ex art. 345 c.p.c.;
- nè si poteva ritenere che tale domanda fosse preclusa per effetto di una scelta irrevocabilmente operata tra l'azione redibitoria e quella estimatoria (o quanti umoris), accordate dall'art. 1492 c.c.; è, infatti, vero - precisava la Corte del merito - che, ove sussistano vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, il compratore non può proporre, nè alternativamente nè subordinatamente, le due azioni, che l'art. 1492 c.c. accorda indifferentemente per l'una (sussistenza di vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui era destinata) o l'altra ipotesi (sussistenza di vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa), e deve operare la scelta tra l'una o l'altra azione; non si può, però, escludere l'ammissibilità della domanda di riduzione del prezzo, proposta subordinatamente alla domanda di risoluzione del contratto, quando l'ammissibilità di quest'ultima possa essere dubbia, ex art. 1492, 1 comma, c.c (per la esistenza di usi che escludano la risoluzione) o ex art. 1492, 3 comma c.c (quando la cosa è perita per caso fortuito o per colpa del compratore o se quest'ultimo l'ha alienata o trasformata): in questi casi - proseguiva la Corte del merito - il compratore, ove abbia proposto domanda redibitoria, ben può, per il caso in cui questa dovesse essere ritenuta inammissibile, per non perdere ogni garanzia, in subordine chiedere l'unica tutela concessagli dall'art. 1492 c.c. nelle ipotesi innanzi indicate, e cioè la riduzione del prezzo della vendita; ora, nel caso in esame - continuava la Corte del merito - il Ladisa aveva effettuato modificazioni notevoli dello stato dei luoghi, come, contro le contestazioni sollevate all'udienza dell'8 aprile 1986 dalla società convenuta e dall'interventore, la consulenza tecnica espletata nel giudizio di appello aveva accertato (peraltro, il Ladisa, dopo le opere da lui eseguite, aveva destinato l'appartamento in questione ad abitazione, mostrando così la volontà di accettare la casa e ribadendo tale volontà con la richiesta, in via principale, in sede di precisazione delle conclusioni, della riduzione del prezzo di vendita);
- la domanda di riduzione del prezzo, ammissibile in rito, era fondata nel merito; correttamente, invero, il Tribunale aveva osservato che gli inconvenienti a seguito degli interventi operati dalla venditrice e dal Ladisa, sulle prime scomparvero, rafforzando l'opinione di quest'ultimo che ogni problema fosse stato risolto, sicché il Ladisa acquistò l'appartamento perché convinto che lo stesso fosse ormai privo di difetti, risultando aver acquisito la certezza obiettiva e completa della esistenza dei vizi e della causa degli stessi solo a seguito dell'espletamento della consulenza tecnica di ufficio; la garanzia, pertanto, non poteva ritenersi esclusa; e la diminuzione di valore dell'appartamento andava ritenuta sulla somma complessiva indicata dal C.T.V. nominato nel giudizio di secondo grado (L. 21.650.000); in particolare, la diminuzione del valore dell'appartamento, in senso stretto, determinata nella misura del 10% del prezzo, bene era stata calcolata con riferimento al prezzo di L. 150.000.000, essendo stato questo il prezzo della vendita, come correttamente era stato ritenuto dal primo giudice, e non già quello di L. 75.000.000 indicato nell'atto pubblico di trasferimento, come sostenuto dalla società appellante; infatti - osservava al riguardo la Corte del merito - dal preliminare di permuta del 26 settembre 1983 risultava che il prezzo era stato convenuto in L. 150.000.000, di cui L. 58.000.000 andavano compensate con la permuta di un appartamento nel complesso "Poggio delle Ginestre", già pagato dal Ladisa alla venditrice SPIRMAR Costruzioni s.a.s, L. 17.000.000 venivano versate in contanti alla sottoscrizione del preliminare e L. 75.000.000 dovevano essere pagate in contanti entro la fine del mese di gennaio 1984; dal contratto definitivo di vendita risultava, poi, che dal prezzo di L. 75.000.000 in esso indicato, L. 60.000.000 erano state pagate e quietanzate contestualmente (con assegno di conto corrente consegnato in presenza del notaio rogante), mentre non si contestava il successivo pagamento delle rate per i residui 15 milioni; la prova dell'avvenuta permuta dell'appartamento per L. 58.000.000 si traeva dalle dichiarazioni in calce ai due preliminari di compravendita esibiti dal Ladisa in calce a quello del novembre 1985 (dichiarazione del 30 gennaio 1984) e dall'architetto Palmiotti in calce a quello del 390 gennaio 1984 (dichiarazione in pari data): l'identità del "residence" (n. 21 del complesso), la contestualità della data (30 gennaio 1984), in cui il Ladisa dichiarava di rinunciare all'acquisto del "residence" (il cui prezzo aveva interamente pagato) e la società SPIRMAR Costruzioni prometteva in vendita lo stesso "residence" a Giuseppe Marzano e Pietro Mazzacane, dichiarando di ricevere la somma di lire 50.000.000, unitamente a quanto aveva formato oggetto del "preliminare di permuta" del 26 settembre 1983, erano elementi univoci e concordanti dai quali si desumeva che il Marzano ed il Mazzacane subentrarono nel contratto preliminare di vendita del "residence" al Ladisa, che già ne aveva pagato il prezzo;
- essendo la somma di L. 21.650.000 oggetto di un debito restitutorio, essa rappresentava un debito di valuta e, pertanto, sulla stessa erano dovuti gli interessi al tasso legale a decorrere dalla data della domanda;
- al Ladisa spettava anche il maggior danno da svalutazione, ai sensi dell'art. 1224, capo V, c.c., richiesto sin dalla udienza del 16 ottobre 1984; il Ladisa fece presente che egli svolgeva attività commerciale e che aveva dovuto far ricorso al prestito per pagare il prezzo dell'appartamento; la circostanza non era stata oggetto di contestazione da parte della società convenuta, la quale solo con l'atto di appello aveva dedotto che erroneamente il Ladisa era stato ritenuto un imprenditore, dimenticando che anche il suo procuratore, nella comparsa conclusionale del 30 aprile 1987, aveva affermato che il Ladisa esercitava l'attività di commerciante e che tale qualità del Ladisa era indicata anche nel contratto definitivo di vendita del 31 gennaio 1984; da quietanze della Banca Popolare di Bari, esibite dal Ladisa, si evinceva, poi, che lo stesso aveva fatto ricorso ad un mutuo ipotecario;
- il maggior danno da svalutazione, ai sensi dell'art. 1224 capo V c.c., andava determinato nella differenza tra gli indici annuali ISTAT relativi alla svalutazione monetaria ed il tasso legale degli interessi, pari al 5% fino al 14 dicembre 1990 ed al 10% a decorrere dal 15 dicembre 1990, ed esso, tenuto conto dei suddetti elementi di calcolo, ammontava, a decorrere dalla domanda e fino al momento della decisione, alla somma di L. 11.750.000, comprensiva degli interessi;
- al Ladisa era dovuto anche il rimborso della somma dallo stesso pagata per i canoni di locazione dell'appartamento, cui aveva dovuto fare ricorso per esigenze abitative, essendo l'appartamento acquistato risultato inabitabile per un certo periodo di tempo, per l'alto tasso di umidità riscontrato: tale esborso costituiva un danno, riconducibile a fatto colposo della società venditrice, ed il compratore Ladisa aveva diritto ad ottenerne il risarcimento; in ordine al quantum della somma (L. 14.000.000), liquidata sulla base di un canone mensile di L. 500.000 risultante dal contratto di locazione e che la società appellante assumeva essere superiore a quello dell'equo canone che a suo dire avrebbe dovuto essere applicato, a parte la considerazione che il mercato, come era notorio, ben difficilmente offriva appartamenti in locazione ad equo canone, l'appellante - rilevava la Corte del merito - non aveva affatto dimostrato che il canone equo della locazione di un appartamento di mq. 200 (quale quello oggetto del contratto di compravendita intercorso tra le parti), ubicato nella stessa zona della città, fosse inferiore a quello corrisposto dal Ladusa;
- le spese del doppio grado del giudizio, atteso l'esito finale della lite - che vedeva, in definitiva, soccombente la società appellante - potevano compensarsi tra le parti per un quarto (1-4), mentre, per gli altri tre quarti (3-4), andavano poste a carico della società appellante.
Per la cassazione di tale sentenza, ricorrono la s.n.c. "Marzano e Mazzacane di Marzano Giuseppe e Mazzacane Pietro", in liquidazione, e Pietro Mazzacane, occorrendo, anche in proprio, sulla base di otto motivi.
L'intimato Domenico Ladisa non ha svolto alcuna attività difensiva. Diritto Con il primo motivo, i ricorrenti - denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., con riferimento agli artt. 183 e 184 dello stesso codice - censurano la impugnata sentenza, per non avere la Corte del merito dichiarato inammissibile, in quanto "nuova", la domanda del Ladisa diretta ad ottenere la riduzione del prezzo di vendita dell'appartamento.
Il Ladisa - sostengono i ricorrenti - aveva più volte, nel corso del giudizio di primo grado, modificato la domanda ed, anche a voler ammettere per mera ipotesi che la reiterata mutatio libelli fosse stata legittimata in itinere dall'accettazione del contraddittorio, il giudice di appello "avrebbe dovuto considerare che la definitiva precisazione delle conclusioni a favore della sola domanda di risoluzione del contratto ha implicato rinuncia da parte del Ladisa alla richiesta di riduzione del corrispettivo e che quest'ultima domanda, prospettata in via subordinata nella comparsa di costituzione in appello, doveva a tutti gli effetti essere considerata "nuovo" e, come tale, dichiarata inammissibile... ", anche perché, nel corso del giudizio di secondo grado, e propriamente in sede di precisazione delle conclusioni, la predetta domanda, formulata nella comparsa di risposta in via subordinata rispetto a quella redibitoria (ribadita con la richiesta di conferma della sentenza di primo grado), era poi stata proposta in via principale rispetto a quest'ultima.
Il motivo non è fondato.
È pienamente aderente alle risultanze degli atti (verbale dell'udienza del 18 dicembre 1984, nel giudizio di prime cure) - che questa Corte può e deve esaminare direttamente, in quanto, con la censura in esame, è stato denunciato un errore in procedendo - l'affermazione della Corte del merito che la domanda di riduzione del prezzo della vendita, per i vizi dell'appartamento oggetto di questa, era già stata dal Ladisa formulata e proposta nel giudizio di primo grado, all'udienza istruttoria del 18 dicembre 1984, subordinatamente a quella di risoluzione del contratto.
Nessun rilievo puntuale e specifico, poi - se non una generica e del tutto apodittica contestazione, che, peraltro, si può solo desumere dall'ammissione del contrario fatta in via concessiva - viene dai ricorrenti rivolto all'altra affermazione della Corte del merito, tratta delle risultanze degli atti e basata su considerazioni giuridicamente corrette, che la società convenuta, all'udienza del 18 dicembre 1984, non ebbe a sollevare alcuna eccezione concernente il carattere di "novità" di questa o quella domanda del Ladisa, ché, anzi, discusse circa l'ammissibilità dei mezzi istruttori diretti a provare il fondamento delle domande medesime, e solo all'udienza del 26 novembre 1985, dopo che tra le parti si era dibattuto sul merito della controversia, ebbe a svolgere difese in tale direzione, eccependo, però, la tardività della proposizione della domanda di risoluzione del contratto di compravendita, senza opporre alcunché alla domanda di riduzione del prezzo della vendita, e mantenendo tale linea difensiva in sede di discussione (verbale dell'udienza del 13 maggio 1987), in cui eccepì la inammissibilità della domanda redibitoria dopo che era stata spiegata quella estimatoria, così confermando l'accettazione del contraddittorio in ordina a quest'ultima.
Rimane la tesi dei ricorrenti della pretesa rinuncia, da parte del Ladisa, in sede di precisazione delle conclusioni, alla domanda di riduzione del prezzo di vendita.
Ma, tale tesi, a ben considerare le cose, si risolve in una mera affermazione che, articolata testualmente nei termini e nelle espressioni riportati sopra tra virgolette e con sottolineatura, si limita puramente e semplicemente ad opporre, senza una denuncia di specifici vizi logici e giuridici di quella censurata, e perciò "in modo inammissibile in questa sede di legittimità, la interpretazione data dai ricorrenti dell'atto processuale di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado (verbale dell'udienza del 1 luglio 1986) a quella, difforme, datane dalla Corte di merito, la quale come si è evidenziato nella narrativa che precede, ha osservato che la domanda di riduzione del prezzo della vendita non era stata affatto abbandonata in sede di precisazione delle conclusioni, come si evinceva dalla lettura del verbale dell'udienza del 1 luglio 1986, nella quale "il Ladisa si era riportato a tutte le richieste, eccezioni e deduzioni formulate nei propri scritti difensivi e ne aveva chiesto l'accoglimento, pur insistendo principalmente sulla domanda di risoluzione contrattuale e di risarcimento di danni".
Rimane, così, ferma la conclusione della Corte del merito che la domanda di riduzione del prezzo della vendita, formulata e proposta dal Ladisa nel giudizio di primo grado senza alcuna eccezione di preclusione e non abbandonata in sede di precisazione delle conclusioni, non poteva essere considerata "nuova" in appello, ex art. 345 c.p.c.
Con il secondo motivo, i ricorrenti - denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 1492 c.c. - censurano, ulteriormente, la impugnata sentenza, per non avere la Corte del merito considerato che la domanda di risoluzione del contratto di compravendita e quella di riduzione del prezzo della vendita, per vizi della cosa oggetto di questa, distinte per loro natura, non possono essere proposte contestualmente, nè alternativamente nè subordinatamente l'una rispetto all'altra; che l'avente diritto deve operare la scelta tra l'una e l'altra; che, una volta operata la scelta di una di esse (scelta irrevocabile), non si può più fare ricorso all'altra. In contrario, non valeva osservare - come faceva la Corte del merito nella impugnata sentenza - che, nel caso di specie, il Ladisa avrebbe proposto le due azioni contestualmente a causa dei dubbi sulla entità della cosa.
Ora - continuano i ricorrenti, concludendo - avendo il Ladisa, in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado, definitivamente insistito sulla sola domanda di risoluzione del contratto, egli in tal modo aveva irrevocabilmente esercitato la scelta, che l'art. 1492 c.c impone inderogabilmente di fare.
Anche questo motivo va disatteso.
L'infondatezza dell'ultimo rilievo discende da quanto si è detto sopra a conclusione dell'esame del primo motivo: la domanda di riduzione del prezzo della vendita non fu abbandonata dall'attore in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado, pur avendo il Ladisa in tale sede insistito principalmente sulla domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno.
Rimane, così, il rilievo concernente la contestuale proposizione della domanda di risoluzione del contratto di compravendita e di quella di risoluzione del prezzo della vendita.
Va preliminarmente osservato che, come esattamente ha rilevato la Corte del merito, l'azione redibitoria e quella quanti minoris, previste dall'art. 1492 c.c. a favore del compratore per la realizzazione del suo diritto alla garanzia per i vizi della cosa venduta, hanno come presupposto la medesima circostanza: la esistenza di vizi che rendono la cosa inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore (art. 1490 c.c.). In questo caso, l'art. 1492 c.c accorda al compratore, indifferentemente per l'una (sussistenza di vizi che rendano la cosa venduta inidonea all'uso cui la stessa è destinata) o per l'altra ipotesi (sussistenza di vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa), le due azioni innanzi menzionate, che, però, non possono essere esercitate contestualmente, nè alternativamente nè subordinatamente l'una rispetto all'altra, avendo il compratore l'onere di operare la scelta (che è irrevocabile) tra l'una e l'altra azione.
Orbene, i principi innanzi esposti - i quali, come si è detto sopra, valgono per il caso in cui al compratore sia accordata indifferentemente l'una o l'altra delle due azioni in argomento, a sua scelta - non sono stati affatto contestati o negati dalla Corte del merito, che, anzi - richiamandosi alla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema, n. 2565 del 25 marzo 1988, citata, tra altre, dagli stessi ricorrenti - ne ha permesso la enunciazione alla sua (censurata) conclusione per il caso di specie, la quale conclusione, però, fa riferimento al caso previsto dal terzo comma, ultima parte, dell'art. 1492 c.c., e cioè al caso in cui - essendo la cosa venduta perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o essendo stata dallo stesso alienata o trasformata - al compratore (come, peraltro, a norma del primo comma, ultima parte, della predetta disposizione, per il caso in cui gli usi escludano la risoluzione) non è accordata, a sua scelta, l'azione di risoluzione del contratto di compravendita o quella di riduzione del prezzo, ma soltanto quest'ultima: in questi casi (in cui il compratore non ha scelta tra l'azione redibitoria e quella quanti minoris, potendo promuovere soltanto quest'ultima), sussistendo originariamente dubbio sull'ammissibilità dell'azione redibitoria o contestandosi l'ammissibilità di detta azione da parte del venditore convenuto, il compratore attore, per il caso in cui tale azione dovesse essere ritenuta inammissibile, ben può - ha affermato la Corte del merito -, per non perdere ogni garanzia, chiedere anche l'unica tutela concessagli dall'art. 1492 c.c., nelle ipotesi innanzi elencate, e, cioè, la riduzione del prezzo della vendita. E, nella specie, la Corte del merito, come si è evidenziato nella narrativa che precede, ha ritenuto ed affermato che ricorresse appunto una di dette ipotesi, perché, contro le contestazioni sollevate nel giudizio di primo grado, all'udienza dell'8 aprile 1986, dalla società convenuta e dall'interventore, la consulenza tecnica espletata nel giudizio di appello aveva accertato che il Ladisa aveva effettuato modificazioni notevoli dello stato dei luoghi (a seguito delle quali, peraltro, lo stesso aveva destinato l'appartamento in questione ad abitazione, manifestando così la volontà di accettare la cosa e ribadendo poi tale volontà con la richiesta, in via principale, in sede di precisazione delle conclusioni, della riduzione del prezzo della vendita).
Ora, sul punto che, nel caso in esame, ricorresse la ipotesi, contemplata dal terzo comma (ultima parte) dell'art. 1492 c.c., della notevole modificazione (della trasformazione) della cosa da parte del compratore, non vi è stata una specifica e puntuale censura da parte dei ricorrenti, i cui rilievi al riguardo muovono dal presupposto, erroneo, che la Corte del merito avesse ritenuto ammissibile la contestuale proposizione della domanda di risoluzione del contratto di compravendita e di quella di riduzione del prezzo della vendita "per via dei dubbi sulla entità della cosa", laddove, come si è detto innanzi, la censurata conclusione della Corte del merito fa riferimento ad una delle ipotesi contemplate nel terzo comma, ultima parte, dell'art. 1492 c.c., ritenuta ricorrente nel caso di specie.
Con il terzo motivo, i ricorrenti - denunciando violazione dell'art. 1491 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., censurano, inoltre, la impugnata sentenza, per avere la Corte del merito ritenuto ed affermato che il Ladisa acquistò definitivamente l'appartamento in questione nella convinzione che gli interventi operati avessero risolto ogni problema e che lo stesso acquisì la certezza obiettiva e completa dei vizi solo a seguito dell'espletata consulenza tecnica di ufficio.
Il Ladisa - osservano i ricorrenti - nell'interrogatorio reso all'udienza dell'8 aprile 1986, aveva ammesso che egli, prima della stipulazione in forma pubblica del contratto definitivo di compravendita, era a conoscenza del fenomeno dell'umidità interessante l'appartamento in questione, e tale conoscenza, acquisita dal compratore in epoca anteriore alla stipulazione del contratto definitivo di compravendita e peraltro con l'assistenza di un tecnico di sua fiducia (l'ing. De Saudi), superava "la motivazione addotta sul punto dalla impugnata sentenza".
Anche questo motivo va disatteso.
Innanzitutto, va osservato che la Corte del merito non ha negato che il Ladisa, prima della stipulazione in forma pubblica del contratto definitivo di compravendita, avesse mai avvertito il lamentato inconveniente della umidità interessante l'appartamento oggetto della vendita, ma ha solo affermato - dichiarando di condividere pienamente quanto in tal senso era stato osservato correttamente dal primo giudice - che, a seguito degli interventi operati sull'unità immobiliare, il predetto inconveniente sulle prime scomparve, sicché il Ladisa acquistò definitivamente l'appartamento perché convinto che ogni problema fosse stato risolto e che il difetto fosse stato eliminato, aggiungendo che il compratore acquisì la certezza obiettiva e completa dei vizi solo a seguito dell'espletata consulenza tecnica di ufficio.
Ciò precisato, appare evidente che la censura in esame per una parte non è puntuale e per l'altra urta contro un accertamento di fatto compiuto dalla Corte del merito, cui viene puramente e semplicemente contrapposta una difforme valutazione dei fatti e delle circostanze del caso concreto, introducendosi in tal modo un tema di indagine inammissibile in sede di legittimità.
Con il quarto motivo, i ricorrenti - denunciando contraddittoria e-o omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia - censurano ancora la impugnata sentenza, sostenendo che la Corte del merito era caduta in aperta contraddizione, prima affermando che l'azione redibitoria non è ammissibile, ove sia formulata e proposta contestualmente a quella estimatoria, e, poi, ritenendo ammissibile la contestuale proposizione delle due domande, con riferimento alla ipotesi della trasformazione della cosa da parte del compratore, contemplata dal terzo comma dell'art. 1492 c.c.
Andava, poi, rilevato - aggiungono i ricorrenti - che il giudice di appello, quanto all'asserito fenomeno dell'umidità che era alla base della controversia e del giudizio, aveva completamente omesso di considerare che, per l'appartamento in questione, era stato, dal Comune di Bari, in data 24 agosto 1983, rilasciato certificato di abitabilità, richiamato anche nel rogito per notaio Rotondo del 30 gennaio 1984: stante la esistenza di tale certificato, il Ladisa avrebbe potuto e, anzi, dovuto effettuare la scelta tra l'azione redibitoria e quella quanti minoris, facendola cadere su quest'ultima sin dal momento della instanzazione del giudizio.
Il motivo è infondato.
Per quanto riguarda il primo profilo, giova ripetere che la Corte del merito ha affermato:
- che l'azione redibitoria e quella quanti minoris, previste dall'art. 1492 c.c. a favore del compratore per la realizzazione del suo diritto alla garanzia per i vizi della cosa venduta, hanno un identico presupposto: la esistenza dei vizi che rendono la cosa inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore (art. 1490 c.c.);
- che, in detto caso, l'art. 1492 c.c. accorda al compratore, indifferentemente per l'una (esistenza di vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui la stessa è destinata) o per l'altra ipotesi (esistenza di vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa venduta) le due azioni innanzi menzionate, le quali, però, non possono essere esercitate contestualmente, nè in modo alternativo nè in modo subordinato l'una rispetto all'altra, avendo il compratore l'onere di operare la scelta (che è irrevocabile) tra l'una e l'altra azione;
- che, però, vi sono due casi - e sono quelli di cui al primo comma, ultima parte, dell'art. 1492 c.c. (esistenza di usi che escludano la risoluzione del contratto di compravendita) ed al terzo comma, ultima parte, della predetta disposizione (la cosa venduta è perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o è stata dallo stesso alienata o trasformata) - in cui, pur ricorrendo il suindicato presupposto comune ad entrambe le azioni, al compratore è concesso di chiedere soltanto la riduzione del prezzo;
- che, in questi casi (in cui il compratore non ha scelta tra l'azione redibitoria e quella quanti minoris, potendo promuovere soltanto quest'ultima), sussistendo originariamente dubbio sull'ammissibilità dell'azione redibitoria o contestandosi l'ammissibilità di detta azione da parte del convenuto, il compratore attore, per il caso in cui tale azione dovesse essere ritenuta inammissibile, ben può, per non perdere ogni garanzia, chiedere anche l'unica tutela concessa dall'art. 1492 c.c. nelle ipotesi innanzi elencate, e, cioè, la riduzione del prezzo.
Ora, poiché il divieto della contestuale proposizione della domanda redibitoria e di quella di riduzione del prezzo è collegato alla ipotesi dell'ammissibilità dell'una e dell'altra domanda indifferentemente, mentre nella ipotesi cui fa riferimento la censurata conclusione della Corte del merito (modificazioni notevoli o trasformazioni della cosa da parte del compratore, di cui al terzo comma dell'art. 1492 c.c.), ritenuta sussistente nel caso di specie, la domanda di risoluzione del contratto di compravendita non è ammissibile ed è ammissibile soltanto quella di riduzione del prezzo della vendita, è di tutta evidenza che la censurata conclusione della Corte del merito, che si riferisce ad una ipotesi particolare e diversa da quella cui è collegato il divieto della contestuale proposizione delle due domande sopra specificate, non si pone affatto in contraddizione con la precedente affermazione della stessa Corte relativa al suddetto divieto.
Per quanto riguarda, poi, il secondo profilo della censura in esame, quello concernente l'avvenuto rilascio, in data 24 agosto 1983, da parte del Comune di Bari, del certificato di abitabilità dell'appartamento in questione, esso, a prescindere da ogni altra considerazione, è, in ogni caso, del tutto irrilevante, dal momento che la domanda (da ritenere ormai incontestabilmente ammissibile, dato l'esito delle censure rivolte alla relativa statuizione in tal senso), presa in considerazione dalla Corte del merito ed accolta, è appunto quella di riduzione del prezzo di vendita, sulla quale, ad avviso dei ricorrenti, il Ladisa avrebbe dovuto operare la scelta sin dal momento della instaurazione del giudizio.
Con il quinto motivo, i ricorrenti - denunciando violazione dell'art. 2700 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.) - censurano, altresì, la impugnata sentenza, per avere la Corte del merito ritenuto ed affermato che il prezzo di vendita dell'appartamento in questione (cui rapportare la diminuzione di valore dell'unità immobiliare) era stato quello di L. 150.000.000 (centocinquantamilioni) e non già quello di L. 75.000.000 (settantacinquemilioni), indicato nell'atto pubblico di trasferimento per notaio Rotondo del 30 gennaio 1984.
Per l'art. 2700 c.c. - assumono i ricorrenti - l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, "delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".
Pertanto, tutto quanto è attestato dal pubblico ufficiale nell'atto pubblico può essere superato soltanto dalla querela di falso ed ogni altro mezzo istruttorio non può trovare ingresso.
Di conseguenza - argomentano i ricorrenti - la ritenuta presunzione, individuata dalla impugnata sentenza in taluni elementi considerati univoci e concordanti, sulla cui base la Corte del merito aveva fondato la "conferma" del prezzo della compravendita in misura addirittura doppia rispetto a quella dichiarata dalle parti al notaio rogante in sede di stipulazione del contratto definitivo di compravendita, costituiva una inammissibile violazione della disposizione di legge indicata come motivo della formulata doglianza.
Andava, inoltre, eccepito - aggiungono i ricorrenti - che, sul punto, il giudice di appello era stato "parziale", non avendo, tra l'altro, considerato la restituzione della somma di L. 58.000.000 ricevuta dal Ladisa e dallo stesso attestata nella dichiarazione apposta in calce alla rinuncia all'acquisto del "residence", espressamente richiamata nella impugnata sentenza, e "tale omissione di motivazione", oltre alla caducazione della presunzione di cui sopra, comportava - proseguono i ricorrenti, concludendo sull'argomento - la cassazione, sul punto, della impugnata sentenza, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
Il motivo va disatteso.
Quanto al profilo centrale della censura, va osservato che, a norma dell'art. 2700 c.c., l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, oltre che dei fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, delle dichiarazioni delle parti e cioè della circostanza che le parti abbaino fatto le dichiarazioni risultanti dall'atto, ma non anche della veridicità delle dichiarazioni medesime e cioè della rispondenza di esse al vero.
Quanto al profilo aggiuntivo, esso - ove si risolva addirittura nella denuncia di un errore revocatorio - urta, in modo che non appare ammissibile per le censure proponibili in sede di legittimità, contro il puntuale accertamento delle vicende negoziali del caso concreto e del loro contenuto, come operato dalla Corte del merito, la quale, come si è evidenziato nella narrativa che precede, è pervenuta ad affermare che, come correttamente era stato ritenuto dal primo giudice, il prezzo della compravendita de qua era stato quello di L. 150.000.000 e non già quello di L. 75.000.000, sostanzialmente osservando:
- che, dal preliminare di permuta del 26 settembre 1983, risultava che il prezzo era stato convenuto in L. 150.000.000, di cui L. 58.000.000 andavano compensate con la permuta di un appartamento nel complesso "Poggio delle Ginestre", il cui prezzo era già stato pagato dal Ladisa alla venditrice SPIRMAR Costruzioni s.a.s., L. 17.000.000 venivano versate in contanti alla sottoscrizione della sottoscrizione del preliminare e L. 75.000.000 dovevano essere pagate in contanti entro la fine del mese di gennaio 1984 (dal contratto definitivo di vendita del 30 gennaio 1984 risultava poi, che, del prezzo di L. 75.000.000, in esso indicato, L. 60.000.000 erano state pagate e quietanzate con un assegno di conto corrente consegnato in presenza del notaio rogante, mentre non si contestava il successivo pagamento delle rate per i residui 15 milioni);
- che la prova dell'avvenuta permuta dell'appartamento per L. 58.000.000 si traeva dalle dichiarazioni in calce ai due preliminari di compravendita esibiti dal Ladisa nel giudizio di appello e sottoscritti rispettivamente dal Ladisa nel giudizio in calce a quello del novembre 1985 (dichiarazione del 30 gennaio 1984) e dall'architetto Palmiotti in calce a quello del 30 gennaio 1984 (dichiarazione in pari data): l'identità del "residence" (n. 21 del complesso), la contestualità della data (30 gennaio 1984), in cui il Ladisa dichiarava di rinunciare all'acquisto del "residence" (il cui prezzo aveva interamente pagato) e la società SPIRMAR Costruzioni prometteva in vendita lo stesso "residence" a Giuseppe Marzano e Pietro Mazzacane, dichiarando di ricevere la somma di L. 50.000.000, unitamente a quanto aveva formato oggetto del "preliminare di permuta" del 26 settembre 1983, erano elementi univoci e concordanti dai quali si desumeva che il Marzano ed il Mazzacane subentrarono nel contratto preliminare di vendita del "residence" al Ladisa, che già ne aveva pagato il prezzo, restando, così, provato che il prezzo pattuito e pagato per l'acquisto dell'appartamento in argomento fu quello di L. 150.000.000.
Con il sesto motivo, i ricorrenti - denunciando violazione e false applicazione dell'art. 1324 c.c., in relazione all'art. 2697, comma 1, c.c. ed all'art. 1 della L. 26 novembre 1990, n. 353 - censurano ancora la impugnata sentenza, assumendo che la Corte del merito aveva completamente ignorato i principi costantemente affermati dalla Corte Suprema, secondo cui: a) l'obbligazione del venditore di restituire al compratore, nel caso di nullità del contratto di compravendita, la somma a suo tempo ricevuta a titolo di prezzo, costituisce un debito da valuta e non già di valore; b) la semplice potenzialità dannosa dell'inadempimento delle obbligazioni pecuniarie non è sufficiente, di regola, a giustificare la condanna del debitore al risarcimento del maggior danno, cioè del danno non coperto dalla corresponsione degli interessi al tasso legale, occorrendo, a tal fine, che il creditore sia un imprenditore commerciale ed alleghi, dimostrandolo, il maggior danno sofferto, in modo da consentire la liquidazione, almeno equitativa, di tale danno; c) la svalutazione monetaria, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 353 del 1990, va confrontata con gli interessi al tasso legale, in modo da applicare quello dei citati titoli (svalutazione monetaria e interessi legali) che risulti maggiore, e non entrambi.
La Corte del merito - osservano i ricorrenti - aveva riconosciuto al Ladisa i titoli suddetti, senza che lo stesso avesse provveduto a provare o a chiedere di provare alcunché sul punto e senza considerare che il Ladisa non aveva neppure addotto che l'appartamento era stato acquistato per l'esercizio della sua impresa di ristorante-pizzeria.
Il motivo non è fondato.
La corte del merito ha tenuto puntualmente conto dei principi sopra indicati.
Infatti, come si è evidenziato nella narrativa che precede, nella impugnata sentenza ha espressamente affermato che la somma di L. 21.650.000, nella quale era stata determinata la misura della riduzione del prezzo della vendita, costituiva oggetto di un debito di valuta e che, pertanto, sulla stessa gli interessi al tasso legale erano dovuti alla domanda. Il giudice di appello ha, poi, attribuito al Ladisa il diritto al risarcimento del maggior danno, ex. art. 1224, capo V, c.c., con la stessa decorrenza, avendo ritenuto risultare dagli altri che lo stesso esercitava l'attività di commerciante, mentre dalla esibita quietanza della Banca Popolare di Bari si evinceva il ricorso, da parte, del medesimo, ad un mutuo ipotecario, e tale maggior danno da svalutazione, secondo gli indici annuali dell'I.S.T.A.T., non è stato cumulato agli interessi al tasso legale, ma è stato determinato, come si afferma espressamente nella impugnata sentenza, nella differenza tra gli indici annuali dell'I.S.T.A.T. relativi alla svalutazione monetaria (da luglio a luglio) ed il tasso legale degli interessi, pari al 5% fino al 14 dicembre 1990 (recte, fino al 15 dicembre) ed al 10% a decorrere dal 15 dicembre 1990 (recte, dal 16 dicembre), fino alla data della sentenza di secondo grado; e, sulle somme liquidate (L. 21.650.000, a titolo di riduzione del prezzo, e L. 11.750.000, per interessi e maggior danno fino alla data della sentenza), sono stati, poi, attribuiti gli interessi di legge a decorrere dalla sentenza.
Con il settimo motivo, i ricorrenti - denunciando violazione, falsa ed omessa applicazione degli artt. 12, 21 e segg. della legge n. 392 del 1978, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - censurano, inoltre, la impugnata sentenza, per avere la Corte del merito attribuito al Ladisa, a titolo di risarcimento di danno, la somma di L. 14.000.000 per la locazione di altro immobile cui lo stesso fece ricorso per sopperire alle sue esigenze abitative in alternativa alla utilizzazione dell'immobile acquistato ritenuto inabitabile.
A parte la considerazione della inammissibilità della richiesta, essendo stata disattesa la ipotesi di risoluzione del contratto, la determinazione del canone di locazione fatta dalla Corte del merito in ragione di L. 500.000 al mese, senza alcun preventivo accertamento, violava apertamente - assumono i ricorrenti - le disposizioni sull'equo canone di cui alla legge n. 392 del 1978.
Il motivo è infondato.
Come esattamente ritenuto dalla Corte del merito, il venditore è tenuto al risarcimento dei danni verso il compratore (beninteso, ove i danni sussistano e siano ricondubili ai vizi della cosa venduta), sia che il compratore abbia proposto la domanda di risoluzione del contratto sia che invece abbia chiesto la riduzione del prezzo, e ciò a norma dell'art. 1494 c.c.
E, quanto all'altro rilievo, a prescindere da ogni altra considerazione, va osservato che i ricorrenti - il cui interesse a proporlo potrebbe, come è evidente, sussistere solo se la determinazione del canone, in base alla legge n. 392 del 1978, per la locazione di un appartamento della superficie di quello in questione (mq. 200 circa, come accertato dalla Corte del merito), ubicato nella stessa zona della città, nel periodo di tempo considerato, portasse ad una somma di importo inferiore a L. 500.000 mensili - non solo non hanno dimostrato ciò, ma non lo hanno neppure allegato espressamente, essendosi limitati a lamentare che non era stato effettuato alcun preventivo accertamento.
Con l'ottavo ed ultimo motivo, i ricorrenti - denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 92 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, stesso codice - censurano, infine la impugnata sentenza, per avere la Corte del merito compensato le spese del doppio grado del giudizio soltanto per un quarto (1-4).
Il giudice di appello - assumono i ricorrenti - avrebbe dovuto compensare per intero le dette spese o, almeno, quelle del giudizio di primo grado, ex art. 92 c.p.c., perché aveva ritenuto ammissibile e proponibile la domanda del Ladisa di riduzione del prezzo (e non quella di risoluzione del contratto), accogliendo, così, l'appello e modificando la sentenza di prime cure.
Anche questo motivo è infondato.
Ai fini della determinazione della parte soccombente, si deve tener conto dell'esito finale della lite e non già di quello delle varie singole fasi, e, correttamente, la Corte del merito ha ritenuto sostanzialmente soccombente la società, odierna ricorrente.
Infatti, è stata accolta la domanda del Ladisa di risarcimento di danni, nella misura richiesta, ed è stata, altresì, accolta la domanda dello stesso di riduzione del prezzo in una misura superiore a quella offerta dalla società, peraltro in via di estremo subordine, come si desume dall'atto di appello e dalle conclusioni trascritte nella epigrafe dell'impugnata sentenza (per contro, non è esatto che la domanda di risoluzione del contratto ex art. 1492 c.c. abbia un presupposto diverso da quello della domanda di riduzione del prezzo, come si è detto sopra nell'enunciare i principi generali della disciplina normativa della garanzia per i vizi della cosa venduta, mentre la sostanziale soccombenza della società nel giudizio di appello è confermata dal fatto della proposizione, da parte della stessa, del ricorso per cassazione).
Per tutte le considerazioni innanzi esposte, il ricorso va rigettato.
Nessuna pronuncia va emessa in ordine al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità, in quanto l'intimato Ladisa non ha svolto alcuna attività difensiva. P.Q.M La Corte così provvede:
rigetta il ricorso;
nulla sulle spese.
Così deciso in Roma, il giorno 11 gennaio 1995