Cass_20_5_02_7337 Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Sentenza del 20 maggio 2002 n. 7337 sull'interversione del possesso La massima L’interversione del possesso non può aver luogo mediante una semplice volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa a nume altrui ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente a nome proprio. Tale manifestazione deve essere non solo tale da mostrare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus definendi il nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore. Quest’ultimo deve essere posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, quindi agire in modo che possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso. 
Tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi né quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, né quelli che si traducano in meri atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene La sentenza REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Franco PONTORIERI - Presidente -
Dott. Roberto Michele TRIOLA - Consigliere -
Dott. Giovanni SETTIMJ - Rel. Consigliere -
Dott. Lucio MAZZIOTTI DI CELSO - Consigliere -
Dott. Francesco Paolo FIORE - Consigliere -
ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da:
Pallante Carla, Pallante Adriana, elettivamente domiciliate in Roma via Della Frezza 59, presso lo studio dell'avvocato Antonio Sandulli, che le difende, giusta delega in atti; - ricorrenti - contro Comune di Avellino in persona del sindaco p.t. Di Nunno Antonio, elettivamente domiciliato in Roma via Cola Di Rienzo 111, difeso dall'avvocato Giuseppe Iannaccone, giusta delega in atti; - controricorrente - avverso la sentenza n. 1828/98 della Corte d'Appello di Napoli, depositata il 06/08/98;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/12/01 dal consigliere Dott. Giovanni Settimj;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Riccardo Fuzio che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Oggetto: risoluzione contratto, restituzioni e danni, eccezione d'usucapione. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione 18.5.95, Clara e Adriana Pallante - premesso che per atto notar Giannitti 19.12.73 la loro dante causa, Sisy Nappi Rossi, aveva venduto al Comune di Avellino un appezzamento di terreno in località Tuoro, distinto in catasto alla particella 417; che l'acquisto, preventivamente autorizzato con delibera 8.2.72 n. 117 della G.M., era stato subordinato alla condizione risolutiva della mancata ratifica della delibera stessa da parte del Consiglio Comunale entro un anno dalla conclusione del contratto; che per l'ipotesi di mancata adozione del provvedimento era stata convenuta la risoluzione di diritto della compravendita, senza la necessità del ricorso all'autorità giudiziaria, ed era stato previsto l'obbligo, per la Nappi, di restituire al Comune la somma di £. 4.700.000 ricevuta a titolo di corrispettivo; che la ratifica non era mai intervenuta, onde, essendosi verificata la condizione risolutiva, il contratto era divenuto inefficacia a far tempo dal 20.12.74 con effetto retroattivo ai sensi dell'art. 1360 CC; che, pertanto, esse deducenti erano divenute proprietarie del terreno in questione, del quale, d'altronde, avevano sempre mantenuto il possesso; che il diritto di credito del Comune, avente ad oggetto la somma di £. 4.700.000, in quanto sorto il 20.12.74, s'era estinto per decorso del termine di dieci anni - convenivano il Comune di Avellino innanzi al tribunale del luogo onde sentir dichiarare di loro esclusiva proprietà l'immobile in questione e prescritto l'avverso diritto alla restituzione del corrispettivo nonché condannare il convenuto al risarcimento dei danni.
Costituendosi, il Comune di Avellino chiedeva rigettarsi l'avversa domanda assumendo che la condizione risolutiva doveva ritenersi impossibile, oltre che illegittima e, dunque, come mai apposta; che non poteva essere disposta la restituzione dell'intero fondo, in quanto 560 mq. di esso erano stati occupati definitivamente per la realizzazione dell'asse di collegamento tra via Amoretta e via Tedesco; che il diritto alla restituzione del prezzo della vendita, per ottenere il quale spiegava domanda riconvenzionale, non poteva ritenersi prescritto, avendo le attrici manifestato per la prima volta la volontà d'avvalersi della condizione risolutiva soltanto nell'anno 1991; che l'avversa pretesa risarcitoria era infondata poiché, come ammesso dalla controparte, il bene era rimasto nella piena disponibilità della stessa; che, comunque, aveva usucapito il terreno per averlo posseduto ininterrottamente da oltre venti anni.
Con sentenza 8.1.97, l' adito tribunale - ritenuto che il contratto 19.12.73 non avesse mai prodotto alcun effetto fin dalla sua stipulazione in difetto della necessaria approvazione dell'autorità tutoria, avente natura di condicio iuris sospensiva degli effetti del negozio; che l'inefficacia ab origine del contratto comportasse l'estinzione per prescrizione del diritto alla restituzione del prezzo vantato dal Comune; che le attrici non avessero subito alcun danno, essendo rimaste sempre nel possesso del bene - dichiarava l'inefficacia del rogito notarile 19.12.73 e la piena ed esclusiva proprietà delle attrici sul fondo oggetto della compravendita, con esclusione di mq. 560 utilizzati per l'asse di collegamento via Amoretta - A.S.I., divenuti di proprietà del Comune di Avellino; rigettava la domanda riconvenzionale spiegata da quest'ultimo per intervenuta prescrizione del diritto di credito; compensava tra le parti le spese del giudizio.
Avverso tale decisione il Comune di Avellino proponeva appello cui resistevano le Pallante proponendo, a loro volta, appello incidentale.
Con sentenza 6.8.98, la Corte d'Appello di Napoli - ritenuto che l'eccezione d'usucapione ventennale, proposta dal Comune in primo grado ed iterata in appello, fosse fondata; che, al fine di risolvere la questione sollevata con tale eccezione, assumesse rilievo decisivo l'anticipata esecuzione dell'accordo contrattuale voluta da entrambi i contraenti, l'alienante consentendo all'acquirente d'intestarsi immediatamente la proprietà del fondo e l'acquirente versando il prezzo a tal titolo dovuto; che il Comune avesse acquistato per usucapione ventennale il diritto di proprietà sul bene in contestazione, avendolo posseduto uti domius fin dal momento della conclusione del contratto, avvenuta il 19.12.73; che il diritto di credito alla restituzione del prezzo della compravendita si fosse prescritto per decorso del termine di dieci anni; che l'azione d'indebito arricchimento non meritasse accoglimento, in quanto esperibile nel solo caso in cui l'interessato non abbia altra azione specifica per farsi indennizzare; che l'accoglimento dell'eccezione d'usucapione assorbisse l'impugnazione incidentale delle Fallante per la condanna del Comune al risarcimento del danno sia per l'illegittima ablazione dell'immobile, sia per l'indisponibilità dello stesso - accoglieva l'eccezione di usucapione sollevata dal Comune di Avellino e, per l'effetto, in riforma dell'impugnata decisione, rigettava la domanda di restituzione del bene proposta dalle Fallante, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese d'entrambi i gradi del giudizio.
Avverso tale sentenza Carla e Adriana Pallante proponevano ricorso per cassazione con tre motivi. Resisteva il Comune di Avellino con controricorso. Entrambe le parti depositavano memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo, le ricorrenti - denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 180/u.c. c.p.c. e dell'art. 345/11 c.p.c. nonché omessa, insufficiente ed inadeguata motivazione - si dolgono che la corte territoriale abbia erroneamente accolto l'eccezione d'usucapione ventennale proposta da controparte dacché questa, nel rispetto del termine di cui all'art. 180/u.c. c.p.c., s'era limitata a proporre soltanto la diversa eccezione d'avvenuta usucapione del terreno con specifico riferimento all'art. 1159 CC; non abbia rilevato come controparte avesse fatto per la prima volta generico riferimento, neppure qualificabile come eccezione, alla pretesa usucapione dell'area soltanto nel verbale déll'udienza del 15.2.96, fissata in prosieguo all'udienza di trattazione; abbia accolto un'eccezione tardivamente ed inammissibilmente proposta in primo grado e, quindi, un motivo di gravame irricevibile ed inammissibile; abbia omesso di motivare sul punto.
Il motivo non merita accoglimento.
Con l'atto d'appello, che questa Corte può esaminare essendosi dedotto un error in procedendo, il Comune, censurando la decisione del primo giudice nella parte in cui, previa declaratoria d'inefficacia del contratto 19.12.73, aveva accolto l'avversa domanda d'accertamento della proprietà dell'area controversa, sosteneva che «non essendosi avverato l'evento dedotto in condizione, si sono verificati due vantaggi per la P.A.: il bene si è trasferito definitivamente da Rossi Nappi Sisy al Comune; la usucapione acquisitiva ex art. 1158 CC, avendo l'appellante posseduto il bene, animo domini, per oltre 20 anni», onde, in seguito, concludeva chiedendo, in via subordinata, dichiararsi avverata in suo favore l'usucapione ventennale.
Nella comparsa di costituzione con appello incidentale, le Pallante, dopo aver sottolineato come correttamente il primo giudice avesse dichiarato inefficace il contratto inter partes, deducevano, quanto all'ex adverso pretesa usucapione, ch'essa «deve essere qualificata come domanda riconvenzionale che è, però, inammissibile, perché non proposta nei termini di cui all'art. 167 c.p.c.» e che «è evidente l'impossibilità di far applicazione dell'art. 1159 CC ex adverso invocato che si riferisce alle diverse ipotesi di acquisto in buona fede da soggetto non proprietario, etc. » ed, ancora, che «è palesemente inammissibile, perché proposta per la prima volta con l'atto d'appello, la domanda mirante ad ottenere il riconoscimento della intervenuta usucapione dell'area, oggetto del giudizio, ex art. 1158 CC».
E' sufficiente il raffronto tra le due riportate posizioni per rilevare l'erroneità della seconda, in quanto con l'atto introduttivo del gravame l'appellante non aveva né proposto una domanda riconvenzionale, avendo proposto un'eccezione, né invocato l'usucapione abbreviata, avendo dedotto quella ventennale; rilievi correttamente effettuati anche dalla corte territoriale.
Valgano, tuttavia, anche le considerazioni che seguono.
Con l'impugnata sentenza, la corte territoriale - dopo aver ricordato in parte espositiva che «con memoria redatta ai sensi dell'art. 185/V (evidente errore materiale, dovendosi leggere 183/V, n.d.e.) c.p.c., il Comune sosteneva d'aver usucapito il bene, per averlo posseduto ininterrottamente per oltre venti anni» accoglieva in parte qua l'appello principale, disattendendo le contrarie tesi in quanto il Comune non aveva «formulato alcuna domanda riconvenzionale essendosi limitato a sollevare, già nel giudizio di primo grado, l'eccezione d'usucapione, tendente a paralizzare la domanda di restituzione dell'immobile avanzata dalle attrici».
Orbene, tanto premesso, le odierne ricorrenti, onde formulare sul punto in sede di legittimità un'ammissibile censura, avrebbero dovuto, anzi tutto, dimostrare come, contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale, la comparsa redatta dalla controparte ai sensi dell'art. 183/V c.p.c., espressamente ritenuta dalla corte stessa introduttiva dell'eccezione d'usucapione ex art. 1158 CC, non avesse contenuto, viceversa, alcuna deduzione concernente l'ordinaria usucapione ventennale; ciò cui avrebbero dovuto provvedere, sotto il profilo formale, riportando i pertinenti brani della detta comparsa e, sotto quello sostanziale, idoneamente censurando l'interpretazione data a quei brani con l'impugnata sentenza.
Per contro, nell’esaminato motivo, con il quale si imputano alla detta corte errori nell'applicazione delle norme regolatrici del processo e vizi della motivazione sul punto, non è svolta argomentazione alcuna per contestare l'affermazione, contenuta nell'impugnata sentenza, per cui la questione dell'usucapione ordinaria ventennale sarebbe stata ritualmente posta dal Comune con la comparsa ex. art. 183/V c.p.c., dacché vi si sostiene, invece, che la questione sarebbe stata prospettata, tardivamente e genericamente, nel verbale dell'udienza 15.2.96 fissata in prosecuzione dell'udienza di trattazione.
Il che osta all'ammissibilità del motivo stesso, dacché, basandosi il capo di decisione de quo su di un determinato atto processuale (la memoria ex art. 183/V c.p.c.) e tale fondamento di esso non essendo stato contestato, la parte difetta d'interesse a contestare l'idoneità d'un diverso atto processuale (le deduzioni a verbale dell'udienza 15.2.96), quand'anche fosse stato anch'esso preso in considerazione dal giudice del merito, ad essere posto a fondamento del medesimo capo di decisione.
Come ripetutamente evidenziato da questa Corte, infatti, ove una sentenza od un capo di essa si fondino su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerli, è necessario non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l'accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo dell' impugnazione, la quale è intesa alla cassazione della sentenza, in toto od in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l'una o l'altro sorreggano; onde è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il ricorso avverso la sentenza, oppure il motivo d'impugnazione avverso il singolo capo di essa, debbano essere respinti nella loro interezza, le censure nell'uno o nell'altro contenute avverso le ulteriori ragioni poste a base della sentenza o del capo di essa impugnati divenendo inammissibili per difetto d'interesse.
Con il secondo motivo, le ricorrenti - denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 342 c.p.c. nonché omessa, insufficiente ed inadeguata motivazione - si dolgono che la corte territoriale non abbia rilevato l'inconciliabilità delle tesi prospettate dal Comune invocando, da un lato, l'efficacia del contratto e, dall'altro, un'usucapione irrilevante ove il contratto fosse stato efficace; abbia accolto il motivo di gravame proposto dal Comune nonostante l'evidenziata inconciliabilità logica e giuridica del mezzo proposto ed, inoltre, la carenza di critica e di confutazione della sentenza di primo grado nella parte in cui era stata rigettata l'eccezione d'usucapione; abbia, quindi, violato l'art. 342 c.p.c., dal quale si richiede, a pena d'inammissibilità del gravame rilevabile d'ufficio, specificità, precisione e concretezza dei motivi d'impugnazione da correlare alla motivazione della sentenza impugnata. Il motivo non merita accoglimento.
Premessa l'inconferenza d'un'eventuale inconciliabilità logica tra due istanze proposte dalla medesima parte in via principale l'una ed in via subordinata l'altra - d'altronde insussistente tra due pretese d'acquisto della proprietà ex contractu e ratione usucapionis - la questione sostanzialmente posta a fondamento della censura, concernente assunti vizi di formulazione del motivo d'appello, non appare fondata.
La sentenza di primo grado, infatti, com'è agevole rilevare alla sua lettura, aveva del tutto omesso sia di esaminare l'eccezione d'usucapione de qua sia di pronunziarsi su di essa, nonostante la sua specifica proposizione risultasse richiamata nelle conclusioni riportate nell'epigrafe; l'unico riferimento ad una situazione possessoria risulta, infatti, nell'apodittica affermazione del primo giudice per cui «è, peraltro, pacifico che l'alienante, e poi le sue aventi causa, non risultano essere mai state spossessate del bene in questione se non per i detti mq. 560 etc.», ma in essa non può essere ravvisata una motivata disamina della domanda intesa alla declaratoria dell'usucapione e che il detto giudice non se ne fosse minimamente posto il problema lo dimostra il dispositivo, laddove, accolta in parte la domanda principale, la rigetta, poi, per il resto «così come rigetta la spiegata riconvenzionale per intervenuta prescrizione del reclamato diritto restitutorio» mentre nessun accenno opera alla riconvenzionale subordinata relativa all' acquisto per usucapione.
Ciò stante, nella specie non possono utilmente richiamarsi i principi in tema di specificità dei motivi d'appello se non relativamente all'impugnazione del singolo capo di decisione, che infatti ha avuto luogo, e non anche all'argomentata contestazione delle ragioni poste dal giudice a fondamento di quel capo, che non poteva aver luogo non essendovi state ragioni da contestare; in vero, nel gravarsi avverso siffatta sentenza ed, in particolare, avverso il mancato accoglimento della subordinata de qua, l'appellante null'altro poteva fare, come ha fatto, se non riproporre la domanda contestando, se pur ve ne fosse stato bisogno, quello che poteva sembrare essere stato il ragionamento posto dal primo giudice alla base dell'ipotizzabile reiezione implicita della stessa, id est la permanenza del possesso in capo alle controparti in ragione dell'effetto restitutorio ex tunc della dichiarata risoluzione, ragionamento cui l'appellante ha contrapposto le tesi del mancato avveramento della condizione risolutiva, dell'avvenuto definitivo trasferimento del bene e, per altro verso, dell'usucapione dello stesso.
Corrette o meno che fossero tali tesi, esse costituivano, in ogni caso, motivi d'appello la cui specificità era da considerare adeguata, sulla questione de qua, in relazione alla motivazione inesistente ed all'omessa pronunzia riscontrabili nella sentenza impugnata.
Con il terzo motivo, le ricorrenti - denunziando violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1158 e 2697 c.c., dell'art. 112 c.p.c., dei principi generali in tema di valutazione delle risultanze probatorie, degli artt. 1353 e 1360 anche sistematicamente considerati, nonché omessa, inadeguata ed insufficiente motivazione - si dolgono che la corte territoriale, rigettando la domanda di restituzione dell'area controversa, mai proposta da esse ricorrenti, abbia violato l'art. 112 c.p.c.; abbia dichiarato un'usucapione ex art. 1158 CC nonostante la relativa eccezione, oltre ad essere stata irritualmente ed inammissibilmente proposta, non fosse stata neanche oggetto della necessaria attività istruttoria volta a provare la sussistenza dei presupposti di legge; abbia adottato una decisione assolutamente priva di motivazione e frutto d'un sillogismo privo di coerenza e congruenza logica e giuridica e d'un'errata assunzione del fatto controverso.
Il motivo non merita accoglimento.
La corte territoriale - sull'espressa considerazione che le parti avevano specificamente pattuito l'efficacia interinale del contratto pur in pendenza della condizione ed all'accordo in tal senso avevano dato esecuzione, consentendo che l'acquirente s'intestasse immediatamente la proprietà del terreno ed, al contempo, che il venditore si ricevesse il prezzo pattuito - ha ritenuto che l'acquirente avesse iniziato sin dal momento dell'intervenuta esecuzione del contratto a possedere animo domini il terreno, pur questo essendo rimasto in tutto od in parte nella materiale disponibilità del venditore, id est ha ritenuto che le parti avessero posto in essere un costituto possessorio, in forza del quale il venditore, originario possessore, dal momento dell'attuazione delle richiamate modalità d'esecuzione del contratto aveva cominciato a detenere con il consenso dell'acquirente, nuovo possessore, ed in suo nome, se pure per proprio conto.
Ciò stante, ha consequenzialmente ed implicitamente ritenuto che nessuna prova ulteriore del conseguito e mantenuto possesso, particolarmente della disponibilità corpore del bene, fosse tenuto a fornire l'acquirente - che manifestamente quel possesso esercitava sodo animo, mentre il corpus era nella disponibilità del venditore divenuto detentore - ed a tale situazione di fatto, dalla quale per l'acquirente stesso derivavano tutti i noti commoda possessionis, ha correttamente ricollegato l'invocato effetto acquisitivo della proprietà ex art. 1158 CC.
Stante, dunque, siffatta impostazione della soluzione giuridica data dalla corte territoriale al caso deciso, era l'eventuale erroneità dell'applicazione dell'istituto del costituto possessorio che le odierne ricorrenti avrebbero dovuto assoggettare a censura in questa sede con adeguate argomentazioni in diritto, mentre sono del tutto irrilevanti le svolte argomentazioni in ordine alla mancata dimostrazione, nelle difese svolte dalla controparte, di atti materiali d'esercizio del possesso, dal momento che atti di tal genere, nella situazione giuridica quale configurata dalla corte territoriale, non erano necessari.
Né le ricorrenti hanno sostenuto d'aver almeno dedotto e dimostrato, perché il possesso della controparte potesse essere escluso, con la conseguente impossibilità di ricollegare ad esso l'effetto dell'usucapione, d'aver modificato, e con quali idonee manifestazioni, la propria detenzione in possesso.
L'interversio possessionis, infatti, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, siffatta manifestazione deve essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus definendi il nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso.
Tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi né quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, né quelli che si traducano in meri atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.
Pertanto, quand'anche la controparte avesse riconosciuto tale disponibilità in capo alle ricorrenti, tale riconoscimento, attenendo ad una situazione di detenzione consentita, nessuna rilevanza avrebbe avuta, ai fini d'un accertamento negativo del possesso della controparte stessa, in difetto d'allegazione ed idonea dimostrazione di un'intervenuta valida interversio possessionis da parte d'esse ricorrenti; ciò anche senza considerare che le frasi nelle quali queste ravvisano il preteso riconoscimento non solo sono formulate in senso ipotetico e, quindi, non hanno alcun valore confessorio, ma tale valore non avrebbero comunque avuto, se mai risultando al più meri indizi utili solo in presenza altresì di vere prove, in quanto provenienti da argomentazioni difensive svolte dal legale in atti processuali non sottoscritti in calce anche dalla parte.
Posto, dunque, che avverso l'accertamento contenuto nell'impugnata sentenza dell'intervenuta usucapione in capo alla controparte non risultano formulate censure meritevoli d'accoglimento e che, pertanto, rigettandosi il ricorso sul punto, il rapporto così come regolato con la detta sentenza rimane immutato relativamente alla reiezione della loro originaria domanda, intesa a far dichiarare l'improduttività d'effetti della compravendita stipulata con la controparte ed accertare il loro diritto di proprietà sul terreno compravenduto, devesi ritenere che le ricorrenti difettino d'interesse ad una valutazione critica in ordine alla qualificazione giuridica della detta domanda effettuata dalla corte territoriale nel dispositivo della sentenza.
Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, il ricorso va, dunque, respinto.
Sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte
respinge il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Camera di Consiglio il 17.12.2001. 
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 20 MAGGIO 2002