Cass_18_06_02_8827 Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Sentenza del 18 giugno 2002 n. 8827 sulla operatività della sanatoria edilizia solo nei rapporti tra il responsabile dell'abuso e la pubblica amministrazione La massima La sanatoria edilizia opera esclusivamente tra il responsabile dell'abuso e la pubblica amministrazione: l'effetto che la sanatoria persegue è solo quello di conservare l'opera costruita abusivamente e di sottrarre l'autore della violazione alle sanzioni previste, ma non fa venir meno la contrarietà della costruzione alle norme che regolano i rapporti tra privati secondo la disciplina del codice civile. La detta sanatoria non opera con riguardo alle controversie civili originate dall'assunto del mancato rispetto di obblighi contrattualmente assunti e non incide sui diritti (non comprimibili) dei privati direttamente pregiudicati dall'attività oggetto della sanatoria La sentenza REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Mario SPADONE - Presidente -
Dott. Roberto Michele TRIOLA - Consigliere -
Dott. Carlo CIOFFI - Consigliere -
Dott. Lucio MAZZIOTTI DI CELSO - Rel. Consigliere -
Dott. Giovanna SCHERILLO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da:
Di Marco Ernesto, elettivamente domiciliato in Roma Corso Vittorio Emanuele II 326, presso lo studio dell'avvocato Renato Scognamiglio, che lo difende unitamente agli avvocati Claudio Scognamiglio, Carmelo Distefano, giusta delega in atti; - ricorrente - contro Cavalieri Giovanni, Muccio Giovanna, Occhipinti Santo, Licitra Giuseppina, Floridia Giovanni, Gulino Emanuela, elettivamente domiciliati in Roma Via Galilei 45, presso lo studio dell'avvocato Giovanni Magnano Di San Lio, che li difende unitamente all'avvocato Giuseppe Marletta giusta delega in atti;  - controricorrenti - avverso la sentenza n. 396/99 della Corte d'Appello di Catania, depositata il 12/06/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/03/02 dal Consigliere Dott. Lucio Mazziotti Di Celso;
udito l'Avvocato Claudio Scognamiglio, difensore del ricorrente che ha chiesto l'accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonietta Carestia che ha concluso per il rigetto. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto notificato il 5/3/1980 i coniugi Cavalieri Giovanni e Muccio Giovanna, Occhipinti Santo, Licitra Giuseppina e i coniugi Floridia Giovanni e Gulino Emanuela convenivano in giudizio Di Marco Ernesto esponendo: che essi istanti erano proprietari di quattro appartamenti acquistati dal Di Marco; che nei quattro contratti il venditore si era riservato il diritto di proprietà esclusiva della terrazza di copertura del fabbricato condominiale e dell'area soprastante, con facoltà di sopraelevare se "tecnicamente e giuridicamente possibile"; che il Di Marco, in violazione degli impegni contrattuali e della concessione edilizia, aveva edificato sulla terrazza una costruzione abusiva. Gli attori, quindi, chiedevano la condanna del convenuto alla demolizione dell'opera non prevista nel progetto approvato dall'autorità comunale, oltre al risarcimento del danno.
Il Di Marco resisteva alla domanda, opponendo, tra l'altro, che le opere eseguite sulla terrazza, difformi dal progetto, erano antecedenti agli atti di acquisto degli attori e ben note agli stessi.
Con sentenza 21/12/1994 l'adito tribunale di Ragusa condannava il convenuto a ripristinare la superficie dei due corpi tecnici previsti in progetto e a demolire l'opera per la maggiore superficie di mq. 45, 48, nonché a risarcire i danni in £. 1.000.000 per ciascuno degli appartamenti degli attori.
Avverso la detta sentenza il Di Marco proponeva gravame al quale resistevano gli appellati.
La Corte di Appello di Catania, con sentenza 12/6/1999, rigettava il gravame osservando: che l'abusiva trasformazione dei due corpi tecnici sul terrazzo in appartamenti abitabili era avvenuta dopo gli atti di acquisto dei quattro appartamenti dello stabile condominiale; che tale trasformazione aveva comportato violazione della clausola contrattuale in base alla quale il Di Marco, nel trattenere per sé la proprietà del terrazzo e dell'area soprastante, si era riservato il diritto di sopraelevare "sempre che tecnicamente e giuridicamente possibile"; che il riferimento, negli atti di acquisto, al piano attico era improprio poiché all'epoca di tali acquisti sulla terrazza di copertura del fabbricato esistevano non locali abitabili ma i due originari corpi tecnici destinati all'alloggio dei serbatoi idrici; che la trasformazione dei due corpi tecnici in due piccoli appartamenti configurava una sopraelevazione "giuridicamente non possibile" in violazione della menzionata clausola; che l'accertata violazione dell'obbligazione pattizia legittimava la pronuncia di rimessione in pristino (demolizione) quale "adempimento dell'obbligazione negativa di non edificare illegalmente" ex articolo 1222 c.c. o, sotto altro profilo, come "risarcimento in forma specifica del danno subito dagli attori" ex articolo 2058 c.c.; che a ciò non era di ostacolo la sanatoria la quale comportava la regolarizzazione delle opere dal punto di vista amministrativo, penale e fiscale, cioè ai soli effetti dell'interesse pubblico, ma non pure ai fini privatistici; che i danni per gli appellati (in dipendenza di una minore fruizione dei servizi comuni) erano stati liquidati dal tribunale in un importo non eccessivo; che il risarcimento dei danni si giustificava come conseguenza di un inadempimento contrattuale concretatosi nella violazione della citata clausola pattizia.
La cassazione della sentenza della Corte di Appello di Catania é stata chiesta da Di Marco Ernesto con ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria. Cavalieri Cavalieri, Muccio Giovanna, Occhipinti Santo, Licitra Giuseppina, Floridia Giovanni e Gulino Emanuela hanno resistito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di ricorso Di Marco Ernesto denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti c.c., nonché carenza e contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia. Deduce il ricorrente che nel contesto degli atti di compravendita stipulati con gli intimati era stato attribuito ad esso Di Marco il diritto di sopraelevare "sempre che tecnicamente e giuridicamente possibile": il tenore letterale della clausola é nel senso univoco che le parti avevano inteso riferire il limite della possibilità tecnica e giuridica alla sopraelevazione e non già ad altre attività, come ad esempio il mutamento di destinazione d'uso dei corpi tecnici. La Corte di Appello ha dato atto che esso Di Marco aveva trasformato i due corpi tecnici presenti in appartamenti abitabili per cui non poteva giungere alla conclusione che tale attività costituisse sopraelevazione. Il giudice del merito ha conferito alla clausola attributiva del diritto di sopraelevazione - ed ai limiti di operatività dello stesso - un significato contrastante con il suo tenore letterale. La Corte di Appello ha ritenuto che le parti avessero inteso avere riguardo ad una nozione giuridica di sopraelevazione (della quale i contraenti ben potevano essere del tutto ignari all'atto della stipula) piuttosto che a quella fisica o materiale di uso comune e di immediata percezione: nel linguaggio comune, infatti, sopraelevare significa edificare sopra un corpo già esistente elevando così l'altezza della costruzione stessa.
La Corte rileva l'infondatezza del motivo che riguarda essenzialmente questioni collegate all'interpretazione dei contratti di compravendita stipulati dalle parti tra il 1976 ed il 1978.
Come é noto, in tema di interpretazione dei contratti e delle clausole contrattuali, l'accertamento della volontà dei contraenti si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà di motivazione tale da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, ovvero per il caso di violazione delle regole ermeneutiche. Pertanto in questa sede di legittimità la censura dell'interpretazione data dai giudici di merito al contratto ed alle clausole che lo compongono, può essere formulata sotto due distinte angolazioni: denunciando l'errore di diritto sostanziale per non essere state rispettate le regole di ermeneutica dettate dagli articoli 1362 e seguenti c.c.; ovvero investendo la coerenza formale del ragionamento attraverso il quale la sentenza impugnata é pervenuta a ricostruire la comune intenzione delle parti.
La giurisprudenza di questa Corte ha anche più volte rilevato che non è sindacabile in sede di legittimità la scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all'accertamento della comune intenzione delle parti, qualora sia stato rispettato il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole contrattuali) siano insufficienti all'individuazione della comune intenzione stessa.
E' infine compito del giudice del merito valutare il contenuto del contratto al fine di identificarne l'oggetto: il risultato di tale indagine è soggetto al sindacato della cassazione solo sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione.
Nella specie la Corte di Appello ha coerentemente interpretato il contenuto dei contratti in questione con riferimento in particolare alla clausola con la quale all'alienante Di Marco era stato concesso di trattenere la proprietà della terrazza con facoltà di sopraelevare ove tecnicamente e giuridicamente possibile.
La Corte di merito ha valutato il significato letterale e logico delle espressioni adoperate dalle parti nel contratto in questione ed ha ampiamente giustificato tale valutazione per poi giungere alla conclusione - sopra riportata nella parte narrativa che precede - che la trasformazione dei due corpi tecnici esistenti sulla terrazza, ampliati illegalmente in due piccoli appartamenti, costituiva una soprelevazione non consentita e realizzata in violazione della citata clausola contrattuale.
Il procedimento logico - giuridico sviluppato nell'impugnata decisione é ineccepibile, in quanto coerente e razionale, per cui si sottrae alle critiche di cui è stato oggetto: il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell'interpretazione degli accordi raggiunti dalle parti è fondato su un'indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione adeguata e congrua.
Il giudice di secondo grado - con corretta indagine in fatto condotta attraverso tutti gli elementi desumibili dal contesto generale dell'atto negoziale in esame - ha quindi svolto coerentemente il compito di determinare il contenuto dei contratti di compravendita in questione indicando minuziosamente le ragioni che gli hanno consentito di pervenire alle riportate conclusioni.
Le argomentazioni al riguardo svolte nell'impugnata decisione sono esaurienti, logicamente connesse tra di loro e tali da consentire il controllo del processo intellettivo che ha condotto alla indicata conclusione.
In definitiva deve ritenersi del tutto insussistente la denunciata violazione delle norme indicate nei motivi di ricorso in esame: l'operazione interpretativa compiuta dal giudice del merito è corretta ed anche se il ricorrente sostiene la violazione dei criteri legali di ermeneutica, svolgendo al riguardo generiche argomentazioni e senza evidenziare il modo in cui la Corte di Appello si sarebbe discostata dai canoni interpretatativi legali, la detta ineccepibile interpretazione rende manifesto che è stato investito il "risultato" interpretativo raggiunto il che è inammissibile in questa sede.
Con il secondo motivo di ricorso Di Marco Ernesto denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 872, 1218, 1222, 2058 c.c. anche in relazione all'articolo 1362 c.c., nonché carenza e contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia. Ad avviso del ricorrente è errato l'argomento del giudice di secondo grado relativo alla distinzione di piani tra regolarizzazione amministrativa della costruzione abusiva e conseguenze civilistiche dell'illecito: tale proposizione, astrattamente corretta, è fuorviante nel caso di specie nel quale le parti avevano convenzionalmente assunto come criterio di valutazione della liceità o meno dell'attività di esso Di Marco la legittimità o meno di tale attività sul piano giuridico, sicché la valutazione su questo piano ad opera dell'autorità amministrativa, sia pur all'esito di sanatoria, non poteva non riflettersi anche su quello dei rapporti tra i contraenti.
Il motivo non è fondato.
La Corte di Appello - coerentemente con l'interpretazione data alla menzionata clausola contrattuale limitativa del diritto di sopraelevazione - ha correttamente applicato il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui la sanatoria edilizia opera esclusivamente tra il responsabile dell'abuso e la p.a.: l'effetto che la sanatoria persegue è solo quello di conservare l'opera costruita abusivamente e di sottrarre l'autore della violazione alle sanzioni previste, ma non fa venir meno la contrarietà della costruzione alle norme che regolano i rapporti tra privati secondo la disciplina del codice civile. La detta sanatoria non opera con riguardo alle controversie civili originate dall'assunto del mancato rispetto di obblighi contrattualmente assunti e non incide sui diritti (non comprimibili) dei privati direttamente pregiudicati dall'attività oggetto della sanatoria (in tali sensi, tra le tante, sentenze 23/11/1999 n. 12984; 6/8/1999 n. 8486; 22/3/1999 n. 2658).
Nella specie appunto - come insindacabilmente accertato in fatto dal giudice del merito - il Di Marco ha realizzato la sopraelevazione in questione, sprovvisto della concessione edilizia, in violazione della norme edilizie e, in particolare, dell'altezza massima consentita dal piano regolatore generale di Ragusa e si è quindi posto immediatamente ed irrimediabilmente in netto e radicale contrasto rispetto agli obblighi assunti con i contratti di compravendita stipulati con i resistenti. Nessuna rilevanza può pertanto assumere - ai fini privatistici concernenti i rapporti tra le parti dei contratti di compravendita in questione - la sanatoria edilizia ottenuta dal Di Marco inidonea ad incidere sui detti rapporti e sul già verificatosi inadempimento contrattuale da parte del ricorrente. La detta sanatoria, peraltro, costituisce conferma del carattere abusivo dell'intervento edilizio in questione in quanto realizzato in contrasto con te norme urbanistiche locali.
Con il terzo motivo di ricorso il Di Marco, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 1218, 1223, 1226, 2697 c.c., nonché carenza e contraddittorietà di motivazione su un punto essenziale della controversia, deduce che la Corte di Appello ha confermato la liquidazione equitativa del danno disposta dal tribunale pur in difetto dei presupposti della medesima. Il potere di liquidazione equitativa del danno presuppone infatti la duplice condizione che sia certa l'esistenza del danno, ma che sia impossibile o molto difficile provare il preciso ammontare dello stesso, restando invece a carico della parte attrice l'onere di provare gli elementi integranti l'esistenza storica del danno. Nella specie gli elementi indicati nella motivazione della sentenza impugnata sono inidonei a dare la prova dell'esistenza del danno ed inadeguati a dare conto delle ragioni del ricorso al criterio equitativo.
Anche questo motivo, al pari degli altri, non è meritevole di accoglimento.
Come è ben noto e come più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità, la liquidazione del danno con criterio equitativo non postula necessariamente l'impossibilità assoluta di stimare con esattezza l'entità del danno potendo il giudice ricorrervi anche quando, in relazione alla peculiarità del fatto dannoso (come nel caso in esame), la precisa determinazione del danno riesca difficoltosa (sentenze 15/1/2000 n. 409; 15/5/1998 n. 4914). Il giudice non è poi tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di conseguenzialità tra ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (sentenza 2/12/1998 n. 12237). Peraltro l'esercizio in concreto dei potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà indicando il processo logico e valutativo seguito (sentenze 17/5/2000 n. 6414; 10/4/1996 n. 3341).
Nella specie la corte distrettuale ha implicitamente ritenuto non contestata e non contestabile la sussistenza del danno - provocato dalla diminuzione della fruizione dei servizi comuni (con riferimento principalmente al rifornimento idrico) per effetto dell'utilizzazione di due appartamenti abusivamente ricavati sulla terrazza - ed ha ampiamente giustificato i criteri seguiti dal tribunale per determinare l'entità del danno peraltro liquidato "in un importo non eccessivo".
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Per la sussistenza di giusti motivi le spese del giudizio di cassazione vanno interamente compensate tra le parti. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Roma 19 marzo 2002. 
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 18 GIUGNO 2002