Cass_15_4_98_3803 Cassazione civile, SEZIONE III, 15 aprile 1998, n. 3803 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Manfredo GROSSI Presidente" Francesco SABATINI Rel. Consigliere" Vincenzo SALLUZZO "" Luigi Francesco DI NANNI "" Alfonso AMATUCCI "ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: COPPINI GIONA, elett. dom. in Roma, via Taro n. 35, presso lo studio dell'avvocato Claudio Mazzoni, e rappresentato e difeso dall'avv. prof. Francesco Alcaro, in virt di procura a margine del ricorso; Ricorrente contro LIA s.r.l., in persona del legale rappresentante sig. DIONIGI BALLI, elett. dom. in Roma, via delle Fornaci n. 38, presso lo studio dell'avv. Raffaele Alberici, e rappresentata e difesa dall'avv. Sebastiano Sebastiani in virtù di procura in calce al controricorso; Controricorrente avverso la sentenza n. 1430 in data 7.11. - 29.12.1995 della Corte d'Appello di Firenze (r.g. n. 1188-93).udita nella pubblica udienza del 23 gennaio 1998 la relazione del consigliere dott. Francesco Sabatini. È comparso per il ricorrente l'avv. Francesco Alcaro, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. Sentito il P.M., in persona del sost. Procuratore generale dott. Vincenzo MACCARONE, che ha chiesto il rigetto del ricorso. Fatto Con scrittura privata in data 7 aprile 1985 la società Lia, proprietaria in Firenze di un complesso immobiliare della superficie di circa 1.500 mq. con annesso giardino, conferì a Giona Coppini l'incarico esclusivo di venderlo al prezzo di lire 5.000.000.000. L'incarico aveva la durata di tre mesi ed era tacitamente rinnovabile di tre mesi in tre mesi in mancanza di disdetta scritta da inviare almeno 15 giorni prima di ogni scadenza. Il compenso, da versare all'atto della firma del contratto preliminare di compravendita, venne pattuito nella misura del 2% del prezzo suddetto, oltre, in caso di vendita a prezzo superiore, il 50% della differenza. In caso di revoca dell'incarico da parte della società prima della scadenza e per qualsiasi motivo, era dovuta una penalità pari al 4% del prezzo convenuto. Con atto di citazione, notificato il 5.2.1991, il Coppini - tanto premesso e premesso, altresì, che il 12.12.1990 egli aveva comunicato alla mandante di aver preso accordi con una società svizzera per la vendita del suddetto complesso al prezzo di lire 6.000.000.000, ma che essa mandante aveva contestato l'efficacia dell'incarico, che aveva poi revocato il 19 dicembre successivo - convenne la stessa dinanzi al Tribunale di Prato e ne chiese la condanna al pagamento della somma di lire 740.000.000, oltre interessi legali e maggior danno da ritardato pagamento. Resistendo la convenuta, con sentenza del 31.3.1993 l'adito Tribunale - qualificato il rapporto come mediazione e rilevato che nulla era dovuto all'attore stante la mancata conclusione dell'affare - respinse la domanda. Tale decisione, impugnata dall'attore, è stata confermata dalla Corte d'Appello con la sentenza, ora gravata. La Corte, ribadita la affermata qualificazione giuridica del rapporto, ha interpretato la clausola contrattuale, relativa alla penalità dovuta al mediatore in caso di revoca dell'incarico prima della scadenza, nel senso che essa doveva essere corrisposta soltanto in caso di revoca intervenuta nel primo trimestre dalla stipulazione del contratto, osservando che, essendo questo a tempo indeterminato, era assurdo, e del resto non era stato neppure sostenuto dall'attore appellante, che esso non potesse essere revocato se non incorrendo in detta penalità: ed essendo ampiamente decorso il primo trimestre, legittimamente, e senza, pertanto, essere tenuta al versamento di alcuna penalità, la società aveva revocato l'incarico. Tale interpretazione - ha aggiunto la Corte - era del resto conforme a logica e buon senso, stante il tempo decorso tra il conferimento dell'incarico (aprile 1985) e la comunicazione del mediatore riguardo al reperimento di un acquirente (dicembre 1990): in tale intervallo, si era infatti verificata una notevole svalutazione monetaria ed il prezzo degli immobili era aumentato in misura perfino maggiore del tasso di inflazione, talché i 5 miliardi dell'aprile 1985 equivalevano, al dicembre 1990, ad oltre lire 6.860.000.000, somma, dunque, ben superiore a quella prospettata dal Coppini, e che la proprietaria non era tenuta ad accettare. Stante, poi, la natura giuridica del rapporto, la mancata conclusione dell'affare escludeva il diritto alla provvigione. La Corte ha infine aggiunto che, essendo nel dicembre 1990 ormai in vigore la legge 3.2.1989 n. 39 - la quale stabilisce all'art. 6 che hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli -, in mancanza di detta iscrizione nulla era dovuto al Coppini: è "vero - ha precisato - che tempus regit actum, ma l'actus nella specie non è l'affidamento dell'incarico, ma l'espletamento dello stesso". Per la cassazione di tale decisione il Coppini ha proposto ricorso, affidato a due motivi e poi illustrato con memoria. La società resiste con controricorso. Diritto 1. Con il primo motivo del ricorso il ricorrente deduce, con riferimento all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754 e ss., 1710 e 1322 c.c., nonché vizio di motivazione su punto decisivo della controversia, ed afferma che arbitrariamente la sentenza impugnata ha ristretto l'efficacia della penalità del 4%, prevista in contratto per il caso di revoca dell'incarico, all'ipotesi in cui questa fosse intervenuta nel primo trimestre successivo alla conclusione del contratto stesso, essendo vero, al contrario, che essa era destinata ad operare in ogni caso di revoca, ancorché intervenuta successivamente. Nè la mancata accettazione della proposta contrattuale poteva ritenersi giustificata dalla svalutazione monetaria verificatasi tra il 1985 e il 1990, dal momento che il comportamento di esso ricorrente era stato improntato alla specifica diligenza, che gli era richiesta, tanto che la proposta era stata effettuata per un prezzo superiore di un miliardo di lire a quello previsto in contratto. Con il secondo motivo, lo stesso denuncia la violazione della legge 3.2.1989 n. 39, nonché vizio di motivazione su punto decisivo, e sostiene che, diversamente da quanto affermato in sentenza, detta legge ha trovato concreta applicazione solo con le norme di attuazione, di cui al d.m. 21.12.1990 n. 452, pubblicato sulla g.u. del 5.3.1991 e, dunque, in epoca successiva alla vicenda in questione, e che, comunque, il contratto di mediazione era stato stipulato nel 1985, talché l'originaria validità di esso non poteva essere infirmata dalla legge successiva. 2. Osserva la Corte che, attenendo i due motivi del ricorso, rispettivamente, all'efficacia ed alla validità dell'obbligazione ascritta all'attuale resistente, preliminare appare l'esame del secondo. Esso non investe la natura della sanzione stabilita dalla legge per il caso di svolgimento di attività di mediazione senza l'iscrizione nel ruolo, di cui agli artt. 2, 5 e 6 legge 3 febbraio 1989 n. 39, recante modifiche ed integrazioni alla legge 21 marzo 1958 n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore - al riguardo la Corte territoriale, pur non avendo espressamente affrontato la questione, è parsa tuttavia orientata ad affermare la nullità dell'obbligazione ai sensi dell'art. 1418 primo comma c.c. conformemente ad autorevole dottrina ed in linea con quanto ritenuto dalle sezioni unite di questa C.S. con sentenza del 3 aprile 1989 n. 1613 nell'analogo caso del contratto di agenzia stipulato da chi non sia iscritto nell'apposito ruolo - sibbene l'asserita inapplicabilità della sanzione stessa a cagione della addotta inoperatività della legge n. 39, citata: questione che è stata già portata all'esame di questa C.S. e decisa (in motivazione, sez. III, sent. 20.9.1996 n. 8372) nel senso che essa, a norma dell'art. 10 delle disposizioni sulla legge in generale, è divenuta obbligatoria nel decimoquinto giorno successivo a quello della sua pubblicazione (avvenuta nella g.u. del 9.2.1989 n. 33). A sostegno di tale decisione la Corte osservò che non solo non vi erano dati normativi contrastanti con l'art. 10 citato, ma che, al contrario, l'entrata in vigore della legge, immediata e non - come anche allora si deduceva - differita nel tempo, era confermata dall'art. 9 di essa, il quale dispone la prorogatio delle commissioni provinciali, istituite ai sensi del d.p.r. n. 1926-60, fino alla nomina delle commissioni, di cui all'art. 7 della nuova legge: avendo, infatti, questa, all'art. 10, abrogato la precedente del 21.3.1958 n. 253 nonché le norme di cui al citato d.p.r. n. 1926-60, con essa incompatibili, se gli effetti anche di tale abrogazione fossero stati, come invece si affermava, differiti nel tempo, la prorogatio, così disposta, non avrebbe evidentemente avuto ragion d'essere. Tale decisione deve essere qui confermata, nessuna argomentazione, in senso ad essa contrario, essendo svolta dal ricorrente. È parimenti infondata la seconda censura, avanzata con lo stesso motivo dal ricorrente. Secondo quanto accertato nel corso del giudizio di merito, in piena ed incontestata aderenza all'art. 9 delle condizioni generali del contratto del 7 aprile 1985, questo, inizialmente stipulato per la durata di tre mesi, era però soggetto a tacita rinnovazione, di tre mesi in tre mesi, in mancanza di disdetta scritta da inviare almeno quindici giorni prima di ogni scadenza: disdetta che, come è parimenti incontestato, giammai venne inviata, prima della revoca dell'incarico, comunicata dalla società al Coppini il 19 dicembre 1990. Al rilievo della sentenza impugnata, secondo il quale il mediatore non ha diritto alla provvigione ai sensi dell'art. 6 della legge n. 39 del 1989, non essendo egli iscritto nei ruoli, e che, a tali effetti, rileva non già l'affidamento dell'incarico, sibbene il relativo espletamento, il ricorrente oppone che, ermeneuticamente, è del tutto scorretto isolare il momento esecutivo rispetto alla fonte contrattuale, per sottoporre il primo ad una disciplina distinta. Osserva la Corte che la premessa comune, donde muovono tanto la sentenza impugnata quanto il ricorso, è che nella specie unico è il contratto, avente tuttavia una durata nel tempo ripetutamente differita. Tale premessa è erronea. Sulla base delle risultanze processuali, come sopra pacificamente acquisite, il rinnovo - di trimestre in trimestre - del contratto, non era infatti automatico, ma richiedeva, al contrario, una manifestazione tacita di volontà: il silenzio, cioè, a fronte dell'onere della disdetta, che lo stesso contratto poneva a carico delle parti perché l'effetto rinnovativo ne fosse invece impedito. Orbene, tale manifestazione tacita di volontà (o silenzio - circostanziato, come definito in dottrina) si è tradotta, di volta in volta, in un nuovo accordo negoziale, ancorché avente lo stesso contenuto di quello inizialmente concordato: come univocamente è confermato dal rilievo che, astrattamente, tale manifestazione ben avrebbe potuto soggiacere ad uno dei vizi, previsti dagli artt. 1427 e ss. c.c. (una minaccia, ad es., per impedire la disdetta), riguardo ai quali sarebbe stato, evidentemente, giuridicamente irrilevante accertare invece l'assenza di essi al momento della iniziale stipulazione. Deve al riguardo precisarsi che il contratto, stipulato per una durata inizialmente determinata e destinato tuttavia, per volontà delle parti contraenti, a rinnovarsi nel tempo - una o, come nella specie, più volte, in difetto di tempestiva disdetta -, attribuisce loro il diritto potestativo, alternativamente, di rinnovarlo o, al contrario, di farne definitivamente cessare l'efficacia alla scadenza inizialmente concordata. Mentre, nel secondo caso, si realizza appunto la definitiva inefficacia del contratto, nel primo la rinnovazione trova la sua fonte immediata nella manifestazione di volontà, sebbene tacita, connessa al concreto esercizio, in tal senso, del suddetto diritto: in altri termini, il diritto potestativo trova la sua fonte nel contratto iniziale, mentre l'esercizio, in tal senso, di esso si sostanzia in un nuovo accordo negoziale e, dunque, in una nuova manifestazione dell'autonomia privata. In questi termini è anche la giurisprudenza formatasi riguardo alla rinnovazione tacita della locazione (art. 1597 c.c.) (tra le altre, Cass. 13.12.1993 n. 12252, 15.11.1994 n. 9622, 27.5.1995 n. 5922), i cui rilievi sono estensibili, per identità di ratio, alla specie. Agli effetti in esame era, dunque, rilevante non già il contratto originario sibbene il nuovo, così come rinnovato ed in essere al dicembre 1990. E poiché a tale data la nuova legge era ormai in vigore ed il Coppini - come è pacifico - non era iscritto nei ruoli, nessuna provvigione gli era dovuta ai sensi del citato art. 6. Così corretta (art. 384 cpv. c.p.c.) la motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo è nondimeno conforme a legge, il rigetto del motivo in esame comporta l'assorbimento del primo, che investe una ulteriore ratio decidendi, essendo l'accertata mancanza di iscrizione di per sè sufficiente a sorreggere la decisione impugnata. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M La Corte rigetta il ricorso e condanna il concorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in lire 458.300 oltre lire 5.000.000 (cinquemilioni) di onorari in favore della resistente. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte, il 23 gennaio 1998.