Dalla cultura del sospetto a quella della programmazione urbanistica, secondo indirizzi generali, ma nel completo rispetto dell'autonomia dei comuni: questo è il senso della rivoluzionaria riforma delle norme sugli standards portata dalla legge 15 gennaio 2001, n. 1 della Regione Lombardia. Con una svolta a 180 gradi rispetto alla filosofia normativa vigente sul suo territorio sin dal 1975, la Lombardia si è posto così all'avanguardia in Italia di una deregulation dell'intervento proprio e dello Stato nel settore delle nuove costruzioni e del recupero che, inevitabilmente, troverà sostenitori e detrattori, ma a cui non si può certo negare forti contenuti innovativi.

Non vi è alcun dubbio sul fatto che fosse di da superare la vecchia normativa urbanistica, che ancorava a rigidi standard quantitativi di reperimento di spazi per servizi sociali ogni aumento di volumetria edilizia. Lo ammettevano un po' tutte le forze istituzionali, di qualsiasi orientamento politico. Era divenuto grottesco che la maggior parte degli interventi urbanistici di un qualche respiro fosse bloccata dalla necessità di reperire spazi per l'edificazione di scuole di istruzione inferiore o di mercati comunali di cui vi era dubbio bisogno, data la riduzione della popolazione scolastica e l'espansione del commercio privato. " Si trattava quindi", spiega Mario Rotondi, direttore generale di Assimpredil, l'associazione delle imprese edili di Milano e provincia, "di dare ad ogni comune la possibilità di stabilire, attraverso un autonomo piano dei servizi, quali fossero i suoi reali bisogni sociali. Nei grandi centri, inoltre, la mancanza materiale di terreno edificabile di proprietà pubblica (o, come si dice in gergo, "di standard") ostacolava le nuove realizzazioni, impedendo l'adeguamento delle città alle necessità dallo sviluppo sociale e produttivo.

Premesso ciò, un'analisi tecnica del testo della norma non permette di avvallare uno slogan comune tra i suoi più accesi sostenitori, quello secondo cui la legge 1/2001 porta alla sostituzione di standard meramente quantitativi con standard di tipo "qualitativo". In effetti nel testo di criteri "qualitativi" non v'è traccia, né, forse, poteva esserci. La legge 1/2001 fissa, esattamente come in passato, delle percentuali numeriche (neanche troppo differenti da quelli vigenti). Con due, fondamentali, differenze, però:

Forse quindi lo slogan "dalla quantità alla qualità", per quanto efficace, andrebbe sostituito da uno un po' più astruso, che recita: "da standards numerici a standards alfanumerici". Nel senso che i nuovi standard non sono fatti più solo da cifre, ma da ragionamenti e valutazioni politiche-sociali che giustificheranno le scelte di ogni amministrazione. Delle conseguenze sul territorio di tali scelte Giunte e Consigli comunali dovranno farsi carico, soprattutto di fronte ai propri elettori e non in rapporto a "controllori" esterni. Infatti le motivazioni adottate nei Piani dei servizi non sono sottoposte a controlli, neppure da parte delle Regioni, a meno che il Piano Servizi sia adottato insieme a un Piano Regolatore nuovo di zecca o a una variante generale.

Afferma Alessandro Moneta, assessore al Territorio e all'Urbanistica della Regione: "La legge 1/2001 è praticamente l'ultimo tassello (insieme al Piano Territoriale Paesistico, approvato subito dopo) della revisione completa della programmazione regionale, che è passata attraverso altre norme fondamentali come la legge n.9 del 1999 sui piani integrati di intervento e la legge n. 22/1999 su procedure urbanistiche, parcheggi e sottotetti. Il quadro normativo è stato completato e per un ben po' di tempo sono da prevedere solo limitati aggiustamenti".

Per passare al vaglio le novità portate dagli articoli dal 4 all'11 della legge 15 gennaio 2001, n. 1 (i primi tre articoli, che riguardano i mutamenti di destinazione d'uso, sono trattati nell'analisi precedente), vedremo prima quali sono le regole, e solo in seguito tratteremo delle eccezioni.

 

STANDARS URBANISTICI E NUOVE EDIFICAZIONI

Ora

Prima

Calcolo numero abitanti

Aree edificate:
  • Residenti

Aree di espansione

  • Possibili residenti pari uno ogni 150 mc di volume (o 50 mq di superficie) teoricamente edificabili
Aree edificate:
  • Maggior numero tra residenti e vani

Aree di espansione

  • Possibili residenti, pari uno ogni 100 mc di volume teoricamente edificabile

Standard di base

Comuni sotto i 3.000 abitanti ** o comuni montani o comuni con almeno metà del territorio tutelato ambientalmente: 18 mq per abitante Comuni sotto i 4.001 abitanti *, a condizioni rigidamente stabilite (non essenzialmente industriali, turistici o con previsioni di forte sviluppo abitativo): 18 mq per abitante

(centro civico, attrezzature religiose, campo sportivo, ambulatorio, area mercato), dotazione precisata dal piano territoriale regionale

Comuni tra i 3 mila e i 20 mila abitanti: 26,5 mq per abitante di cui:
  • Almeno il 13,25 mq a verde e attrezzature per gioco e sport
  • Il resto deciso dal Piano servizi
Comuni tra i 3 mila e i 20 mila abitanti: 26,5 mq per abitante di cui:
  • 15 mq a verde e attrezzature per gioco e sport
  • 4,5 mq istruzioni inferiore
  • 3 mq parcheggi a uso pubblico
  • 4 mq altri servizi (aree religiose, culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative)
Comuni sopra i 20 mila abitanti ***:

44 mq per abitante

  • di cui 23,25 mq a verde e attrezzature per gioco e sport
  • il resto deciso dal Piano servizi
Comuni sopra i 20 mila abitanti ***: 44 mq per abitante, di cui:
  • 15 mq a verde e attrezzature per gioco e sport
  • 17,5 mq (istruzione superiore, sanità, parchi, sport, mercati, strutture protezione civile)
  • 4,5 mq istruzioni inferiore
  • 3 mq parcheggi a uso pubblico
  • 4 mq altri servizi (aree religiose, culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative)

* Popolazione effettiva alla data approvazione Prg;

** Popolazione effettiva al 31 dicembre dell'anno precedente la data di approvazione Prg;

***Capacità insediativa residenziale teorica

La capacità residenziale

Gli standards sono dei rapporti. Ci dicono infatti quanti metri quadri (o metri cubi) a servizi sociali necessita ogni residente attuale o futuro del comune. Di conseguenza, diviene indispensabile decidere come si calcola il numero di tali residenti. Il metodo è diverso, a seconda se la zona è edificata o edificabile.

Per le zone edificate la vecchia legge urbanistica imponeva di tener conto del " valore maggiore tra un numero di residenti insediati ed il numero dei vani abitabili esistenti". La nuova legge si riferisce invece al solo numero dei residenti. "C'è senz'altro una maggior certezza del diritto" dice Rotondi. "Innanzitutto perché tutti i comuni possono affermare di conoscere il proprio numero di residenti. Viceversa il numero di vani abitabili è un'astrazione, perché non esiste alcuna fonte attendibile". Con la liberalizzazione delle opere interne negli edifici, infatti, il Catasto non accetta nemmeno le variazioni delle suddivisioni interne delle unità immobiliari. Probabilmente il criterio del numero dei residenti, in media inferiore in Lombardia al numero dei vani, è meno oneroso.

Per le aree di espansione si passa invece da 100 a 150 metri cubi teoricamente realizzabili pro capite. Quindi si va verso una minore "densità edilizia" per abitante.

I comuni conquistano comunque la possibilità, dietro adeguata motivazione, di modificare tali parametri.

Gli standards generali

Vengono fissati tre standards diversi per i servizi, a seconda della popolazione di ciascun comune lombardo. Uno minimo, di 18 mq ad abitante, valido per i piccoli comuni (e, novità, anche per quelli montani o tutelati ambientalmente). Uno, medio, per i comuni oltre i 3 mila abitanti e sotto i 20 mila abitanti, pari a 26,5 mq per abitante. E, infine, uno massimo, di 44 mq per abitante, per i municipi più popolosi. Apparentemente, quindi, cambia poco o nulla rispetto al passato: le cifre sono identiche.

"La modifica più profonda è un'altra", sottolinea Rotondi, "Mentre infatti la vecchia legge urbanistica imponeva una ripartizione rigida all'uso degli standards (tot a verde, tot a parcheggi, eccetera), da oggi in poi i comuni potranno decidere un Piano servizi in cui motivano la ripartizione degli standards disponibili. Il Piano potrà essere successivamente cambiato per adattarsi a nuove necessità, trasformazioni del territorio, cambiamenti sociali, crescita o calo della natalità e della mortalità, e quant'altro".

L'unico vincolo rimasto (per quanto ammorbidito) è la destinazione di metà degli standards disponibili a servizi a verde pubblico e/o attrezzato. La percentuale sale a 23,25 mq su 44 mq per i comuni sopra i 20 mila abitanti. Viceversa sembrerebbe che i comuni fino a 3 mila abitanti siano liberi di stabilire nel piano servizi anche la dotazione di verde.

Tuttavia i comuni possono, previo accordo con altri comuni e enti, gestire "in condominio" determinati servizi, soddisfacendo così il proprio fabbisogno con strutture esterne al loro territorio e derogando così in modo motivato dagli standards. "La nuova regola", spiega l'assessore Moneta, " ha una sua logica, soprattutto per quel che riguarda i piccoli centri: va infatti nella direzione dell'accorpamento di servizi che sarebbe inutilmente costoso per ogni municipio mantenere in proprio. Il caso classico è la scuola elementare o media con più insegnanti che allievi: meglio che si uniscano le forze per far funzionare al meglio un solo istituto, anziché due sotto-utilizzati". Non dimentichiamo poi che l'accorpamento dei servizi è divenuta una necessità per i piccoli comuni anche in conseguenza alle varie leggi sul decentramento amministrativo: per esempio non è certo consigliabile che ciascuno degli oltre 1500 comuni lombardi abbia un proprio ufficio catastale.

Lo standard a verde pubblico

Dal momento che il verde pubblico è destinato ad "ingoiare" una buona metà degli standards a servizio, prendono un forte rilievo due deroghe:

La prima stabilisce che è possibile conteggiare nel verde le aree inserite nei parchi regionali e sovracomunali (non solo quelle dei parchi comunali, quindi). La seconda aggiunge che i comuni che "dimostrino" l'impossibilità di reperire all'interno del proprio territorio i terreni necessari, possono individuare anche aree esterne ai propri confini, previa intesa con un altro comune interessato. Ovviamente tali aree potranno essere conteggiate una sola volta (saranno quindi escluse dal calcolo del comune che le ospita).

L'effetto pratico di queste due nuove norme è, a dir poco, notevole. Una prima constatazione è che i piccoli e i medi comuni inseriti all'interno di un parco sovracomunale cesseranno di avere fame di standard a servizi (o, più esattamente, di averne un bisogno imposto da regole urbanistiche astratte: in fondo le strutture sociali sono pur sempre necessarie). C'è chi potrebbe obiettare che non si tratta di una grande novità: in effetti la "carenza di standard" è una malattia che affligge soprattutto i comuni più popolosi. "Un secondo, ancor più importante effetto", afferma Anna Bonomo, dirigente della struttura giuridico-territoriale della Regione, "è che anche grandi città, come per esempio Milano e Bergamo, hanno ora gli strumenti pratici per cancellare, in parte e forse anche in toto, la loro fame di standards, attingendo alla dotazione di verde dei comuni confinanti o dei parchi sovracomunali"..

Gli standards a servizi forniti dai privati

Ai fini degli standards possono essere conteggiati anche i servizi e le attrezzature forniti da privati, purché "regolati da apposito atto di asservimento o da regolamento d'uso". Quest'ultimo periodo è frutto del faticoso compromesso raggiunto tra la Regione e il Commissario di Governo, che per ben due volte aveva rigettato il testo della nuova legge urbanistica. "Tutto sommato", afferma l'asasessore all'Urbanistica Moneta, "il Governo ha preteso che fosse resa esplicita un'ovvietà. E' evidente che non potevano essere conteggiati negli standards, per esempio, le attività delle palestre o dei circoli culturali privati. Del resto, la possibilità di soddisfare gli standard con servizi privati era già prevista da un'altra legge lombarda, la 9 del 1999, sui Programmi integrati di intervento (Pii). E il Governo non aveva censurato questa norma" A titolo di cronaca, ricordiamo che la Regione, vittoriosa sul riconoscimento degli standards privati, ha dovuto cedere su un altro fronte: la possibilità di approvare direttamente in Giunta, e non necessariamente in Consiglio comunale, i piani urbanistici attuativi conformi al piano regolatore.

Sul piano della logica, l'inclusione negli standards delle strutture private non fa una grinza: innanzitutto perché un servizio pubblico e uno aperto al pubblico sono la stessa cosa, dal punto di vista del soddisfacimento dei bisogni. Il regolamento d'uso o comunque un'apposita convenzione avranno il compito di rendere il servizio riservato a tutti e non solo a una ristretta élite. "Inoltre", aggiunge Rotondi, " i privati sono in grado di costruire ed eventualmente gestire infrastrutture reali. Viceversa buona parte delle aree comunali destinate a servizi sono tali solo sulla carta, mentre nella realtà si tratta di lotti abbandonati al degrado o di strutture fatiscenti e inutilizzate".

Ci si può chiedere (e ad Assimpredil lo hanno fatto) se il campo di applicazione della norma possa essere esteso al gran numero esistente di strade private gravate da servitù di pubblico passaggio, che verrebbero così conteggiate come "standards". Alla Regione tendono ad escluderlo: le strade sono infatti "urbanizzazioni primarie" , mentre gli standards a servizi riguardano le urbanizzazioni secondarie (scuole, impianti sportivi eccetera).

Quando non è né possibile né credibile valutare gli standard forniti da privati i termini di metri quadri o metri cubi, si potrà infine ricorrere a valutazioni economiche di valore. "Pensiamo, ad esempio, " dice Moneta, "al caso in cui i privati si prendano carico dell'acquisto di un'opera d'arte, per "arredare" una piazza storica. E' ovvio che a contare non può essere la sua cubatura".

PARAMETRI PER GLI INSEDIAMENTI DI ATTIVITÀ ECONOMICHE

Ora

Prima

Insediamenti industriali

10% superficie lorda a servizi
  • 20% superficie lorda a servizi
  • 10% superficie lorda a servizi (comuni montani)

Insediamenti direzionali e commerciali

  • Zone C e D :100% superficie lorda a servizi (di cui metà a parcheggi di uso pubblico)
  • Zone A e B: 75% superficie lorda a servizi (di cui metà a parcheggi di uso pubblico)
  • Tutte le zone: 200% superficie lorda a servizi per le grandi strutture di vendita (oltre 1.500 mq in comuni inferiori 10 mila abitanti, oltre 2.500 mq altri casi)
100% superficie lorda a servizi (di cui metà a parcheggi di uso pubblico)

Residenze turistiche

17,5 mq per abitante (in base al Piano dei servizi) 23 mq per abitante (di cui 20 a parchi, anche attrezzati e 3 a parcheggi pubblici)

Insediamenti direzionali e commerciali

La dotazione a servizi delle attività commerciali e degli uffici viene ripartita diversamente rispetto al passato. La legge del 1975, infatti, imponeva semplicemente la regola del raddoppio: se utilizzo 1000 mq per una nuova costruzione, devo garantirne altrettanti a servizi. Le nuove norme replicano le vecchie, ma solo per gli edifici situati nelle zone C e D (di espansione o industriali). Viceversa per le zone edificate la percentuale scende dal 100% al 75%. Spiega Rotondi, di Assimpredil: "Per le zone edificate il limite del Dm del 1968 era in effetti del 50% dell'edificato. Quindi la nuova norma raggiunge un compromesso tra la dotazione minima prevista dal decreto e quella, doppia, presente nella vecchia legge urbanistica",

Viceversa, per le zone industriali, la superficie a servizi è ridotta alla metà: il 10% anziché il 20%. Siamo evidentemente in presenza di una norma agevolativa a favore della piccola industria.

Infine vi è anche un raddoppio: 200% della superficie lorda per le grandi superfici di vendita. Si tratta, in effetti, del recepimento di quanto stabilito da un'altra legge lombarda, la n. 14 del 1999. "Una norma sacrosanta", è il parere di Assimpredil, "perché la concentrazione in determinate artiere dei grandi centri commerciali ha causato problemi enormi alla viabilità".

Insediamenti residenziali turistici

Per i comuni con una vocazione per la seconda casa (gli standard alberghieri sono regolati altrove) è stabilita una dotazione di 17,5 metri quadrati a servizio, in calo rispetto ai 23 precedenti.

Eccezioni agli standard

Una volta create le regole degli standard , la nuova legge crea anche un'eccezione di grande rilievo. Si dice infatti che, ferma restando l'osservanza di una dotazione minima di 18 metri quadrati per abitante, i comuni, in relazione alle specifiche caratteristiche del loro territorio, possono indicare nel Piano dei servizi la sufficienza di dotazioni inferiori…. motivandone specificatamente le ragioni", con riferimento, in particolare, alle indicazioni contenute dal provvedimento della Giunta regionale che detta i criteri secondo cui redigere il Piano servizi.

Va sottolineato che il calo al minimo di 18 metri quadrati per abitante vale per tutti i comuni, compresi quelli con popolazione superiore a 20 mila residenti. Una regola abbastanza simile, per la verità, era contenuta nel comma 5-quinquies dell'articolo 22 della vecchia legge urbanistica. "Si è trattato, però, di una possibilità scarsamente sfruttata dai comuni", spiega Rotondi, "perché era difficile giustificare modifiche a standard puramente numerici. Oggi, invece, ogni scelta dei comuni, in incremento o diminuzione degli standard, ha la possibilità di essere giustificata con convincenti ragionamenti e attraverso una diversa programmazione"

Il Piano servizi

Istituito dalla nuova legge, il Piano dei Servizi è uno specifico allegato al Piano Regolatore Generale. I criteri con cui dovrà essere redatto saranno dettati dalla Giunta Regionale da un provvedimento da approvare entro il 20 luglio 2001. Il termine è ordinatorio, e quindi non vincolante, tuttavia alla Regione affermano di essere in grado di rispettarlo, salvo sorprese dell'ultima ora. Anche in mancanza dei criteri regionali, tuttavia, i comuni possono dotarsi sin da subito di un proprio Piano Servizi.

L'autonomia comunale nei decidere sui contenuti del Piano Servizi non ha precisi limiti, se non quelli, più teorici che altro, di eventuali conflitti con i l Programma Regionale di Sviluppo e con i piani territoriali regionali o sovracomunali (per esempio il Piano Paesistico, appena approvato dalla Regione).

STANDARDS URBANISTICI E RECUPERO

Interventi di recupero: quando sono possibili nei centri storici

L'articolo 5 della legge 1/2001 si occupa in modo specifico dei centri storici, sostituendo in toto l'articolo 17 della legge 51/75. Per individuare il loro perimetro si dovrà ora fare riferimento alla cartografia "di prima levatura" dell'Istituto Geografico Militare Italiano, motivando adeguatamente eventuali ampliamenti o riduzioni in relazione ai mutamenti intervenuti successivamente. Il fatto che si sia identificato uno "standard" cartografico ha la sua importanza: prima vigeva l'indeterminatezza. Le cartine "di prima levatura" risalgono all'inizio del secolo, il che può essere sia un handicap che un vantaggio Da una parte si riesce meglio a identificare il centro storico come tale, dall'altra si incontrano difficoltà per cambiamenti intervenuti nel tessuto dei lotti e della viabilità. Inoltre la scala (1:25.000) è scarsamente particolareggiata.

Di particolare rilevo è il comma 4, dell'articolo 5, che pone delicati problemi interpretativi. Dà infatti un'interpretazione molto innovativa al comma 1 dell'articolo 7 del Dm 1444/68. Quest'ultimo stabilisce che nei centri storici gli interventi considerati come "risanamento conservativo" non debbono superare "le densità edilizie di zone e fondiarie preesistenti, computate senza tener conto delle soprastrutture di epoca recente prive di valore storico-artistico". In caso di nuove costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% della densità fondiaria media della zona e, in nessun caso, i 5 metri cubi per metro quadrato.

In sostanza un'interpretazione rigida del Dm 1444/68 portava a concludere che:

a) in linea di principio, nei centri storici si potevano fare solo operazioni senza aumenti di superficie o volumetria o comunque classificate dalla legge 457/78 come "di restauro o risanamento conservativo";

b) qualora si intervenisse con nuove costruzioni "ammesse", o con demolizioni e ricostruzioni, si poteva costruire più o meno la metà di quel che si era demolito (a meno che nell'area in cui si interveniva fossero preesistenti larghi spazi non edificati).

Con l'articolo 5 della legge lombarda si dice invece che nel Dm 1444/68, la definizione "risanamento conservativo" va interpretata in senso estensivo, come comprensiva di tutti i cinque interventi di recupero elencati nell'articolo 31 della legge 457/68 (manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica.

Tutto bene, salvo il fatto che si crea così una contraddizione latente. Infatti è noto come gli interventi di ristrutturazione edilizia possano prevedere l'aumento delle superfici utili. Quanto a quelli di ristrutturazione urbanistica, normalmente includono l'incremento delle volumetrie o, quanto meno, la loro modificazione e differente organizzazione all'interno dei lotti. E chiaro che, in tali casi, le densità edilizie e fondiarie preesistenti verrebbero superate, in contraddizione con il dettato del Dm 1444/68.

"L'attuale formulazione del comma 4", riconoscono alla Regione, "non è in effetti molto chiara, perché frutto di un compromesso, che ha portato a modifiche di un testo preesistente". Tuttavia una circolare regionale in via di pubblicazione anticipa che: gli interventi di demolizione e fedele ricostruzione di un immobile, senz'altro compresi nell'articolo 31 della legge 457/68, potranno d'ora in poi essere tranquillamente eseguiti nei centri storici, conservando la stessa volumetria occupata dall'immobile demolito. Analogo discorso vale per quegli interventi di ristrutturazione edilizia (come la trasformazione in abitazione dei sottotetti) che creano nuova superficie abitabile e, in casi particolari, anche un incremento volumetrico dovuto alla necessità di sopraelevare per raggiungere lo standard minimo di abitabilità (legge regionale 22/1999).

L'unico limite che resta, di cui tratteremo più sotto, è l'eventuale necessità di reperire degli standard a servizi.

Affermano ad Assimpredil: "Capita abbastanza spesso che ci troviamo ad affrontare interventi nel tessuto urbanistico che sono in parte di recupero dell'esistente e in parte di edificazione vera e propria. In tal caso è prevedibile che le regole di riferimento, e quindi le relative procedure, diverranno due: per gli interventi di recupero nei centri storici, l'articolo 5 della legge 1/2001, per quelli di nuova costruzione, gli articoli successivi".

Interventi di recupero e necessità di standards

L'incremento della capacità insediativa residenziale, dovuto a interventi di recupero o a cambi d'uso, porta alla necessità di nuovi standard a servizio. Lo stabilisce il comma 3 dell'articolo 6 della nuova legge. La regola è valida dappertutto, fuori o dentro i centri storici. In altre parole, anche qualora un intervento di demolizione e ricostruzione porti a un aumento della popolazione residenziale nell'edificio, o qualora un sottotetto sia reso abitabile senza essere un semplice ampliamento dell'appartamento sottostante, ma bensì un'unita immobiliare autonoma, diviene necessario reperire standard a servizi. Per i cambi d'uso da commerciale/industriale a residenziale, la norma va raccordata a quanto stabilito dai commi 4 e 5 dell'articolo 1, che prevedono in alternativa la possibilità di monetizzazione degli standard o di cessione di aree.

Un nuovo strumento di pianificazione urbanistica

Una piccola rivoluzione è consumata nel comma 3 dell'articolo 5: il riconoscimento ufficiale del ruolo della concessione edilizia convenzionata come strumento di pianificazione urbanistica. Parlare di radicale novità è esagerato: in effetti l'esistenza di convenzioni tra pubblico e privato a cui sono subordinate certe concessioni è, da decenni, una banalità. Tuttavia in più occasioni la giurisprudenza urbanistica aveva negato alla concessione convenzionata un ruolo autonomo, se non inserita all'interno di un più generale "piano attuativo" del Prg, comunque denominato (di recupero, di riqualificazione, integrato d'intervento, di lottizzazione, e via elencando). Da oggi, invece, la concessione convenzionata diviene uno strumento intermedio, a metà strada tra quella "semplice" e il piano particolareggiato, che prevedeva comunque una attività di pianificazione troppo complessa. Diverrà quindi mezzo particolarmente flessibile per progettare modifiche del territorio di limitato respiro. Il suo corretto uso, o il suo abuso, resta nelle mani dei comuni: l'eccesso di burocrazia urbanistica non è mai stato, comunque, una reale tutela degli interessi pubblici.

Per la verità l'inserimento del comma 3 nell'articolo 5, dedicato al recupero e, più esattamente, al recupero dei centri storici, potrebbe far ritenere a qualcuno che la concessione convenzionata conquisti un ruolo limitato a un certo tipo di interventi. Alla Regione tendono però a rigettare questa interpretazione, giudicata troppo rigida.

Entrata in vigore

La nuova legge è entrata in vigore sin dal 20 gennaio 2001, e prevede la sua prevalenza sulle altre norme, anche regionali. L'adeguamento dei Prg può avvenire anche tramite variante parziale, approvata con la procedura semplificata prevista dall'articolo 3 della legge 23/97. Anche le eventuali successive modifiche ai Piani di Servizi si avvalgono della stessa procedura.